Cattura tec

La questione mi si è posta una volta ancora proprio ieri intervenendo in una discussione su Facebook quando Francesca, una insegnate convinta utilizzatrice delle tecnologie a scuola, afferma che nonostante lei proponesse un uso della lim come “strumento cognitivo” o per realizzare progetti….

…. mi sento rispondere che ci vuole tanto tempo e c’è il programma da seguire…

Alta insegnante afferma che …

… nella mia scuola la LIM è usata per vedere film, per proiettare i cd di lingua straniera…. niente che coinvolga i ragazzi.

Intervengo nel confronto affermando che se parti da uno strumento (ed in un corso sulla lim non puoi che partire dalla lim, in uno sui tablet non puoi che partire dei tablet; ovvio) ti impantani nello strumento.

E non ne esci e si finisce che tra i tantissimi usi possibili, alla fine, nella normalità della didattica di tutti i giorni, ti orienti verso quello più facile, quello a te più congeniale. Cioè continui a fare le tua solita didattica.

Magari per un breve periodo ed in ossequio a quanto ti è stato insegnato in un corso fai qualcosa di diverso (ammesso che qualcosa di autenticamente diverso ti sia mai stato insegnato), ma col tempo riprendi a fare quello che hai sempre fatto, anche con le tecnologie.

E’ un modo di procedere assolutamente normale: perché mai dovresti cambiare la tua pratica se i tuoi riferimenti concettuali, se la tua visione di apprendimento e di insegnamento non è mai cambiata?

Ogni essere umano “normale” agisce secondo le proprie rappresentazioni mentali, in qualsiasi contesto si trovi.

Ecco perché fare corsi sulle tecnologie a partire dalle tecnologie non serve a innovare autenticamente la didattica. Mi dispiace di averlo sempre detto e di trovare ogni giorno delle conferme.

Alla mia sollecitazione, in quel confronto, di partire dalla didattica, dai problemi di didattica, dai problemi di apprendimento, dagli obiettivi che si vuole conseguire e, poi, trovare lo strumento che è più sensato usare (anche una ricerca, o il videoproiettore), Francesca replica:

attualmente corsi di didattica non se ne fanno più, per cui si utilizza quello che c’è per cercare di promuovere cambiamento. La gente si vede arrivare gli strumenti e non sa non solo come usarli, e questo sarebbe il meno, ma, soprattutto, cosa farci, per cui ti viene a cercare. Dopo averli accontentati spiegando lo strumento, cosa che per loro è più importante, si cerca di andare oltre lo strumento, partendo, appunto, da quello che vogliono fare, ma, ripeto, in genere c’è poca disponibilità a cambiare. Se questi corsi non ci fossero, Gianni, ti assicuro che molte persone non si porrebbero neppure il problema…

Più chiaro di così non si può.

Le tecnologie non sono il cavallo di troia per innovare la scuola. Un tempo, lontano, lo pensavo anch’io (e di certo in qualche posto lo avrò anche scritto), ma visto come le cose buttavano, ho presto fatto ammenda. No, la tecnologie non sono mai state e mai lo saranno una strada “furba” per innovare la nostra scuola.

Se il problema è il paradigma didattico che non funziona (se funziona, non c’è bisogno di fare nulla), allora si deve prendere di petto quel problema e le astuzie di Ulisse non servono a nulla (in giro, più che persone astute vedo tanti furbacchioni).

Considerato, però, che si introducono le tecnologie anche a scuola (con investimenti davvero miseri, ma meglio di niente), si facciano pochi e brevi corsi tecnici sull’uso dello strumento e ci si fermi qui. Spenderemo meno soldi ed otterremo lo stesso risultato.

Se si vuole “innovare” la didattica, si mettano in piedi processi (anche con moduli di formazione formale) che affrontino in modo diretto la questione.

Sappiamo che fine ha fatto Ulisse.

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16 pensiero su “Perché con i corsi sulle tecnologie non si innova la didattica?”
  1. MAESTRO, mi consenta…c’è un rischio, non nel tuo pensiero, che conosco, ma nelle tue parole, ed è il rischio dell’alfabetizzazione come si è formata nell’era del medium libro a stampa. ossia: viene prima il concetto, o lo schema, e poi la sua messa in pratica. se così fosse si riproddurrebbe ciò che più impedisce l’uso alla loro altezza cognitiva, dei media digitali e INTERATTIVI e quindi APERTI. Allora, come dici tu, il problema è la formazione, che ancora oggi ha la potente struttura del preliminare: io ti do il sapere e ti dico come si usa, tu lo usi e io poi ti dico se fai bene.
    invece, ma è storia e battaglia vecchia che cozza contro il sistema della formazione e delle sue lobby e del suo familismo amorale, il problema è fare formazione installando delle botteghe artigiana, in cui, come si blatera per i ragazzi, si impari facendo e riflettendo su quel che si fa. Gli è che non si tratta di avere un sapere, inteso come contenuto, sull’argomento – qualunquessosia – ma di fare esperienza, protetta ma non simulata – di quello che poi si “potrebbe” fare in classe. Ed è qui che sono antrologicamente pessimista, perchè la domanda più diffusa è quella di avere strumenti e oggetti da ri-pro-dur-re. Quando sapiiamo, e lo fanno se non lo sanno molti figliuoli – che quello che si può fare nasce dall’attivazione delle risorse situate del contesto dove siamo, a partire da ciò che colà è ritenuto sensato e degno di essere appreso. ho visto insegnanti affannarsi a dettare la giusta direzione – senso – di lettura di un ipertesto, ho visto insegnanti bacchettare i loro allievi che con e sulla lim proponevano altte ipotesi, ho visto insegnanti pentirsi perchè i ragazzi non li stanno a sentire – sentire!!! – davanti a una Lim, insomma ho visto la decima parte di quello che hai visto tu. forse, ma mi viene in mente mentre scrivo, sarebbe importante fare una piccola raccolta fenomenologica dell’uso della Lim, per discuterne tugheder…e poi ricordarci che da che mondo è mondo la lim è stata usata soprattutto per evadere…

  2. Eterna lotta. E ne parliamo da anni, e Pirozzi ha bene espresso l’altro corno del dilemma. Fai così, Gianni: tenta una bella sintesi delle posizioni. Ovvero, per dirla con strumenti concettuali che possediamo, poni l’attenzione sulla relazione, non sui nodi. La relazione tra strumenti e teoria. La relazione tra quella teoria che dice “partiamo dai concetti” e quella teoria che dice “partiamo dagli strumenti”. Tra avanguardismo e sperimentalismo, direi, se stessimo parlando di arte. Dove l’avanguardismo decostruisce i linguaggi mostrando e rinnovando il modo di nominare la realtà, lo sperimentalismo prova a sospendere i linguaggi, andandoci “sotto”, e ravanando direttamente nella materia, suoni gesti colori o parole. E anziché sospendere il tempo, con fotografie utili per analizzare ma senza vita, diamo per reale la situazione in cui le cose ci sono entrambe, compresenti sempre nelle situazioni esistenziali, come quella della didattica quotidiana in un gruppo classe, dove abitano persone informazioni strumenti, pratiche cieche e teorie zoppicanti. Tutto l’ambiente è pronto: una scintilla e nasce la vita.

  3. Condivido quanto affermato nei commenti precedenti. Quando ho cominciato io ad usare la LIM, questo strumento era ancora sconosciuto in Italia, per cui “mi sono fatta da me”, applicando la teoria alla pratica e rivedendola tante volte in base ai risultati che avevo. Ho sperimentato, sbattendoci la testa tante volte e mai smettendo di voler imparare. Mi metto però anche nei panni degli altri, di chi non ha tempo o voglia o non ha i mezzi per fare da solo: illustro l’uso tecnico dello strumento, mi chiedono ” e ora che ci faccio?” ed io rispondo “arrangiati”?
    La realtà della scuola è diversa dai nostri sogni, non sono tante le persone che hanno voglia di sperimentare dedicando tempo e passione ai propri sogni, come non sono tante le persone che continuano a studiare e ad aggiornarsi perché lo ritengono importante per il loro mestiere.
    Io non voglio essere né Ulisse né Don Chisciotte e non voglio imporre niente a nessuno, ma ritengo di avere fatto il mio dovere quando qualcuno mi dice che gli ho aperto dei mondi nuovi.
    Parlo della LIM perché è il mio campo, ma penso che il discorso sia estensibile anche ad altri tools. Credo, poi, che il “learning by doing” possa essere applicato con successo anche nella formazione ad adulti, o no?

  4. Vi ringrazio Salvatore, Giorgio e Francesca per le riflessioni che portate e che mi portano ad affinare il mio pensiero su questa precisa questione, e cioè se formare all’uso degli strumenti porta al cambio anche delle pratiche che quegli strumenti rendono possibili.

    Un tempo, si un tanto, tanto tempo fa, ero convinto che volendo introdurre nella didattica le tecnologie per migliorare e cambiare la didattica stessa, la formazione agli aspetti tecnici della strumentazione dovesse essere fatta dovesse nel contesto della formazione alla didattica. Il mio presupposto era che lo strumento e le sue caratteristiche si potessero portare dietro anche delle applicazioni diverse.
    Questo modello potrebbe essere chiamato “dallo strumento alla pratica”, o da un nuovo strumento ad una nuova pratica.

    Purtroppo è un modello che non ha funzionato ed i tanti casi empirici o presenti in ricerca lo dimostrano: nella stragrande maggioranza di didattica con le tecnologie, la didattica non è sostanzialmente cambiata (mi fermo alla didattica, non parlo di apprendimento).

    Allora, perché la didattica non è cambiata? La mia risposta è che non è cambiata perché le pratiche non sono guidate dallo strumento, ma dai modelli concettuali che chi usa lo strumento ha nella propria mente. Forse qualche strumento ben fatto potrebbe offrire delle affordances nel senso di Gibson (appigli)per nuove pratiche, ma non è il caso della lim (che offre affordance per una didattica trasmissiva), forse un po’ più per i tablet in quanto strumenti per la produttività personale.

    La mia affermazione finale e che per cambiare le pratiche è necessario che cambino i modelli concettuali che guidano quelle pratiche.

    Ovvio che il cambiamento dei modelli concettuali non avviene a seguito dell’ingiunzione: “cambia il tuo modello concettuale”, cioè attraverso una formazione in cui si dice perché un modello non va bene e perché uno diverso si. I processi del cambiamento sono complessi ed impegnativi ed implicano riflessione, anche guidata, sulle proprie pratiche, ecc ….

    Certo, i corsi di didattica con le tecnologie si possono fare, ma non sono quelli che fanno cambiare la didattica. Possono far imparare l’uso di uno strumento (ecco perché ho detto di fare corsi all’uso dello strumento, e stop).

    Magari, in qualche persona particolarmente vocata all’automonitoraggio della propria azione, alla riflessione nell’azione e sull’azione, capace di pensiero critico, con il supporto di qualche buona lettura …. qualche processo di cambiamento potrebbe essere messo in moto.

    Nella maggior parte delle persone le cose “dette” o “trasmesse”, anche se sensate, non fanno breccia. I buoni modelli “trasmessi” o fatti vedere, non vengono introiettati perché qualcuno, anche autorevole, ce lo ha detto. Vengono introiettati solo se noi siamo in grado di darne un senso.

    Francesca, si il “learning by doing” ha un senso anche nella formazione degli adulti, ma non basta fare per imparare. Non è la mera azione che porta all’apprendimento; è la riflessione sull’azione che genera apprendimento. Non basta “fare esperienza” per “avere esperienza”. Ma questa è un’altra partita. Da giocare tutta.

    Per inciso: ci sarebbe un’ulteriore pista di approfondimento della questione, quella dell’antropologia culturale e delle comunità di pratica con l’associata questione degli artefatti che una “cultura” o una “community” produce ed utilizza. Una provvisoria idea: in questo caso (le tecnologie nella didattica) non sono artefatti prodotti da una cultura, ma imposti – colonialisticamente – ad una cultura. Ecco perchè quel contesto culturale (la scuola) li ha depontenziati da ogni carica innovativa e li ha assimilati, inglobati, annullandoli. Un pensiero molto grezzo da affinare

  5. “E’la riflessione sull’azione che genera apprendimento”: vero ne sono pienamente convinta anche nel lavoro scolastico con i bambini.
    La comunità di pratica è quella su cui mi sto orientando, almeno nella mia scuola, perché ritengo sia l’unico spazio a disposizione per la metariflessione.
    Giustamente dici che le tecnologie sono artefatti imposti colonialisticamente ad una cultura: penso però che si debba lavorare proprio per evitare l’assimilazione acritica e il rifiuto aprioristico offrendo occasioni di riflessione sul campo che, in qualche caso fortunato, possono portare a cambiamenti nella mentalità e nelle pratiche.
    Bello questo dibattito a distanza 🙂

  6. Francesca, la questione è, allora, sul come offrire occasioni di riflessione.
    Se l’input è: “vieni a questo corso e ti mostro come fare” (semplifico, ovviamente, ma più o meno è sempre così,anche quando capita a me), difficile che si attivi riflessione sulla propria pratica

  7. Potrebbe essere “vieni a questo corso e proviamo insieme…” :-).
    A parte la battuta scontata, rilancio: “Come offrire occasioni di riflessione sulle proprie pratiche?”

  8. Scusate l’intromissione,ma l’argomento mi affascina alquanto…
    Mi piacciono tutte le vostre riflessioni pedagogico-didattiche compiute in questo post… forse, al posto di tanti collegi barbosi e infruttuosi bisognerebbe compiere proprio quelle riflessioni sull’azione di cui avete parlato. Purtroppo né la riflessione, né la formazione in servizio sono un obbligo…basta vedere tutto il chiasso fatto sui DSA, BES, misure compensative e dispensative…neppure lì la tecnologia attecchisce!

  9. Come fare? Banalissimo e difficilissimo, assieme.
    Facilissimo, perchè basta che la persone lo vogliano fare,
    Difficilissimo perchè basta che le persone lo vogliano fare.
    Non è una battuta.
    Io sto ragionando con un committente sull’attivazione non di corsi ma di “circoli di didattica”, sulla falsa riga dei “circoli di qualità” e dell’action learning. forse potrebbe essere una strada

  10. Francesca B,grazie per la tua “intromissione” che, ovviamente, tale non è. Obbligare alla riflessione, la vedo un po’ dura. Basterebbe proporre occasioni di riflessione, vedi la mia precedente risposta a Francesca Panzica

  11. Gentili insegnanti, maestri, formatori, educatori, professori…
    i vostri saggi commenti mi danno da pensare(immagino sia proprio questo il senso delle domande e delle provocazioni che il dott.Marconato lancia attraverso questo sito..e lo ringrazio infinitamente)

    Se è vero che non è l’azione che genera apprendimento ma la riflessione su di essa, mi azzardo a riportare qui alcuni miei pensieri. Anche Mazzini incitava a partire dal pensiero per produrre azioni significative e in effetti con il suo motto, che sintetizza un universo, ha contribuito a generare quello straordinario Rinascimento ottocentesco che è il Risorgimento capace di produrre addirittura l’unità d’Italia. Aveva di sicuro sogni e ideali molto alti e si occupava di questioni vitali per la vita di ognuno come la libertà, la giustizia, la dignità del cittadino. Io sono una maestra. Mai ci fu parola di tale immenso spessore, ruolo e titolo che ricopro senza grossi meriti. In passato il maestro era colui che sapeva fare, costruire, creare (verbi poco concettuali in realtà) qualcosa(non tutto per fortuna) in modo eccellente. In classe non abbiamo una lim ma per fortuna c’è un computer collegato ad internet, possiamo accedere ad un’aula con 12 postazioni, ad un giardino,ad una palestra e altri spazi per le attività più varie. Siamo fortunati a poter contare su questa vasta gamma di tecnologie, dalla zappa, alla penna, al videoproiettore e magari l’anno prossimo arriverà pure la lim. COME devo “agire” nel(la)scuola per educare gli allievi che mi sono affidati? COSA è indispensabile che essi imparino? Il Legislatore attraverso documenti ministeriali e regolamenti di ogni tipo ci ha prescritto le finalità, gli obiettivi, i traguardi, le conoscenze, abilità e competenze(si usano ancora?…) che devono raggiungere gli allievi alla fine di un percorso di studi…ed è giusto così, bisogna avere traguardi, guardare ad orizzonti di ampio respiro. Sul metodo la nostra Costituzione prevede la libertà di insegnamento ed è giusto anche questo…Certo il rischio di pensare solo alla propria di libertà è molto alto e perciò questo concetto va sempre vigilato e ricercato, discusso e condiviso…, In questo ci aiutano molteplici modelli educativi sia del passato e del presente, dell’area pedagogica ma anche di molte altre discipline. Abbiamo il confrorto (confronto/conforto) dei colleghi, le buone pratiche, la ricca documentazione disponibile ormai ovunque, persino il fiato sul collo che molti genitori ci buttano addosso(di questo non vi nascondo che ho un po’ paura…) La molteplicità mi confonde a volte e nel bombardamento di una straordinaria offerta formativa sento il bisogno di qualche certezza. Mi interrogo se non è il caso di ricercare quella maestria di antica memoria nascosta nella parola “maestro” Mi dico che è importante sentirmi a mio agio, perchè no provare piacere e divertimento in ciò che faccio mentre avverto che questi sono esattamente i bisogni dei miei allievi. Mentre so che lo studio e la conoscenza sono il mio dovere imprescindibile, ho il piacere e l’obbligo di mettermi al loro servizio, di facilitarli e aiutarli con la giusta misura nel loro procedere scolastico. Che impresa!! In tutto ciò sento che mi aiuta la fantasia, la musica, le arti, le tecnologie e le discipline. Ma la maestria a cui aspiro è pensare, conoscere e agire con ironia, voglia di giocare e allegria…

  12. Martina, grande questo accenno a tecnologie come il giardino, la zappa, la penna :-). Dimostri come non sia lo strumento che consente una buona didattica.
    Dimostri, anche, di essere eccellentemente riflessiva. Un conforto per la nostra disastrata scuola
    Grazie per la visita

  13. Ci incrociamo nuovamente, Gianni. Ho iniziato anch’io lo spreading attraverso i “circoli di studio” organizzati dal Comune di Scandicci tanti anni fa e poi sospesi per mancanza di fondi, ovviamente. Non nacquero espressamente per la didattica, ma erano aperti a qualsiasi gruppo volesse riunirsi per riflettere e lavorare su un preciso argomento. Esperienza pionieristica, una delle tante che il Comune di Scandicci (Firenze) ha avviato nel tempo.

  14. C’è spesso, soprattutto quando si parla di informatica/telematica, la tendenza a “debordare”. Il lessico potrebbe esserci d’aiuto: perché parliamo sempre di “strumenti informatici” ma ci riferiamo al contesto come se dovesse per forza di cose trattarsi di un nuovo paradigma?
    Se di strumenti si tratta allora è bene che siano considerati tali: da un martello mi aspetto che mi aiuti a piantare chiodi, non che modifichi il paradigma della falegnameria!
    Il rischio – che più mi addentro e più mi accorgo essere concretissimo – è che inseguendo utopiche didattiche diffuse ed interattive, sociali, interculturali, ecc. ecc. si perda di vista l’applicazione immediata possibile dello strumento come oggetto atto a facilitare il lavoro. Cominciamo a partire dal fatto che la LIM è (può essere) più comoda e più “potente” di una lavagna a gessetti; che un file richiede meno sforzi, meno carta e meno costi per essere distribuito, modificato, restituito e verificato rispetto ad un pacco di fotocopie. Che una mail ti può raggiungere anche se sei a casa con l’influenza, ecc.
    Da esterno nel mondo della scuola (sono un genitore impegnato) misuro quotidianamente la distanza tra insegnanti, segreterie e ministeri da questo utilizzo ormai normale delle tecnologie.
    La mia pluridecennale esperienza nel campo mi ha ampiamente dimostrato che – come del resto per qualsiasi altro strumento – è la familiarità con l’uso normale che consente di iniziare ad immaginarne quello innovativo. Mentre attualmente è come se si pretendesse di insegnare musica dodecafonica per i primi rudimenti sul flauto dolce: partiamo dalle note e dalle canzoncine: la familiarità con lo strumento permetterà ad alcuni più dotati di immaginarne applicazioni innovative.
    E allora cominciamo ad usare l’informatica per ridurre la carta, semplificare il riutilizzo, accelerare la revisione e la correzione, migliorare l’archiviazione. E la telematica (la rete) per restare in contatto, scambiare informazioni, semplificare la comunicazione e l’utilizzo.
    Questo personalmente ho cercato di fare con il mio SusyDiario, senza pretendere di rivoluzionare la scuola, ma limitandomi a fornire strumenti e suggerimenti d’uso; nella speranza che possano aprire la strada a nuove “visioni”

  15. mi pare molto sensato quello che dice francesco, sul debutto normale di uno “strumento”. eppure non credo sia esaustivo. chi inventò il cannocchiale? gli olandesi o galilei? ora riporto ricordi di veccie letture, credo Koirè che distingueva utensile e strumento. il primo era una protesi di abilità già esistenti, o se volete di sensi: il cannocchiale olandese svuluppava un senso/abilità, la vista. consentedo di fare meglio quello che già si faceva. e allora perchè il cannocchiale di galilei era diverso, era uno strumento? perchè non più dell’occhio era espansione, ma della mente, al servizio di un’ipotesi. ed è chiaro che senza quell’utensile, alla fine usato e modificato in maniera straniata, non ci sarebbe stato possibilità di invenzione e che la stessa mente fu trasformata (penso che i satelliti medicei non erano visibili prima dell’ipotesi e della conseguente invenzione del cannocchiale). io penso che la LIm è la stessa cosa, se quella I di interattiva vuol significare qualcosa, se no chiamiamola LM. non inventa l’interattività, ma la renderebbe più pratica-bile. fermo restando che io costruivo – modesti – ipertesti dell’immaginario coi miei allievi, dopo una lettura, con una volgare lavagna di ardesia, e in quella costruzione non gettavo via nulla, ogni inferenza aveva il diritto di cittadinanza. pace e bene

  16. Concordo ancora una volta pienamente con il collega Gianni Marconato circa li rapporto tra metodologie didattiche realmente innovative e nuovi strumenti tecnologici;l’introduzione di questi strumenti deve essere almeno contestuale o preceduta da una efficace formazione sulle metodologie didattiche più innovative,ormai largamente sperimentate,ancor prima della diffusione di massa delle nuove tecnologie informatiche :un esempio per tutti lo MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) con esperienze sul tipo di quelle descritte dal maestro Mario Lodi nella scuola elementare realizzate molti decenni prima della diffusione delle tecnologie informatiche con strumenti (“tecnologie”) molto più modesti ma sicuramente incisivi sul modo di insegnare e di apprendere in quella fascia scolastica perchè basate su di un pensiero pedagogico e didattico alternativo a quello tradizionale trasmissivo-ricettivo (FREINET)

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