domilani
Saperi spontanei, saperi naturali  
A scuola ci sono due categorie di persone: gli insegnanti e gli studenti.  Ognuno di queste ha un proprio vissuto, una propria esperienza, vive in uno specifico contesto che alimenta in modo significativo le sue conoscenze.
Questo nella vita, ma quando si arriva a scuola contano solo i saperi degli insegnanti e quelli degli studenti non hanno alcun diritto di cittadinanza.
Gli studenti devono appropriarsi dei saperi degli insegnanti (cosa che ha un suo senso visto che stiamo a scuola e non in piazza) ma devono rassegnarsi a non veder tenuto in alcun conto i propri.
Il disconoscimento dei saperi degli studenti non è solo una cosa che è priva di senso ma è anche un male.
Umiliazioni, risorse sprecate e fallimenti
Perché?
Primo perché umilia gli studenti privandoli della propria vita, dando il messaggio che ciò che loro sanno, che è stato costruito attraverso la loro esperienza e, magari, le sofferenze, non ha alcun valore, non ha dignità “scolastica”. È zero.
Secondo perché è un grave spreco di risorse preziose per gli scopi della scuola e anche per le “discipline” che si trattano a scuola. Risorse oltretutto “a gratis”. Risorse che potrebbero attivare facilmente apprendimenti significativi, motivare gli studenti all’impegno, farli amare e apprezzare la scuola.
Terzo perché porta la scuola al fallimento della propria missione che è quella di assicurare agli studenti il pieno sviluppo cognitivo e affettivo attraverso l’utilizzo e il potenziamento delle risorse di cui sono dotate.
Perché non si utilizzano, se non mi modo episodico e casuale, quasi incidentale, i saperi degli studenti?
Discutendo con amici e colleghi insegnanti su un passaggio di Don Milani (*) dove veniva messa in evidenza questa espulsione di conoscenza, si erano fatte queste ipotesi:
Insegnanti spaventati 
I saperi degli studenti spaventano gli insegnanti perché:
  • fanno loro perdere il potere fondato sui loro saperi, su saperi di valore, da lui certificati nella loro validità;
  • obbligano ad abbandonare il porto sicuro della disciplina, del programma, del libro di testo, una “realtà” conosciuta e controllata per avventurarsi nel mare aperto e sconosciuto di conoscenze non omologate, chissà come gestibili;
  • potrebbero mettere a nudo fragilità professionali nel momento in cui si è costretti ad uscire da una didattica standardizzata e pianificata per gestire le mutevoli realtà che ci mettono davanti persone vere, ricche, diverse le une dalle altre.

La questione è complessa. Io credo che qualcosa, timidamente, si stia muovendo in questa direzione, tanto nel mondo dell’insegnamento che in quello dell’editoria scolastica (… nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri).  Per intanto concludo con le parole di Don Milani che invita all’umiltà di chi sa di non essere il solo ad essere “sapiente”:

Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare.

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Questo è il pezzo che mi ha stimolato questa riflessione:

 

Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi. Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori. Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori. Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di seconda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che possa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono dalla vostra scuola. Basta guardare le figure: contadini mancini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi dei romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di prima elementare mi disse: “Monta su quell’albero e coglimi due ciliegie”. Quando lo seppe la mia mamma disse: “O chi le ha dato la patente?”. Avete dato l’abilitazione a lei e la negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nascosto va a cercare sul vocabolario cosa sono. Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per ignorare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vicino? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si chetano mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa chi sono ne dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra. Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare.

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