Non è l’outing professionale di inizio anno ma l’amara constatazione sul significato della nostra professione quando agita con ristrettezza di prospettiva circa il senso e il ruolo della scuola.

Avevo concluso l’anno passato con qualche domanda e riprendo qui la riflessione stimolato da alcune discussioni aperte in Facebook da Rosario Paone, insegnante (intellettuale) in un liceo siciliano, il cui elemento portante è la natura intrinsecamente politica della scuola.

Intrinsecamente politica vuol dire che è la visione politica che il legislatore assume a determinare priorità, forma e contenuti del sistema d’Istruzione. E, a ben guardare , non può essere che così: la scuola è uno strumento, se non il principale, di mantenimento in equilibrio del sistema

La scuola riflette una visione politica di società e di persona ed è questo il piano che determina per gran parte ciò che la scuola è e fa, con buona pace di noi formatori, pedagogisti e didatti.

La pedagogia e la didattica sono chiamate a dare una copertura “scientifica” alle scelte politiche. Nel migliore dei casi, la pedagogia può ispirare e cercare di influenzare le decisioni politiche: la politica non si fa certamente dettare l’agenda dalle evidenze più o meno scientifiche che pedagogia e didattica possono mettere in campo.

Con la politica o si è conniventi o contrastivi, (o, se vogliamo usare espressioni edulcorate e politically correct, collaborativi vs. critici) non si può essere autonomi e rivendicare terziarietà,  neutralità scientifica.

Quando si ignora, volutamente o per ingenuità o limiti cognitivi, la natura della scuola  e si pensa che il problema sia pedagogico e didattico si scade nell’autoreferenzialità con punte di delirio di onnipotenza.

La scuola italiana, anche quando vista  nello scenario internazionale,  non è arretrata come si vuol far credere (anche questa argomentazione è tipicamente politica) perché qualche punto di  differenza nei (famigerati?) ranking OCSE vuol dir poco e agitare lo spettro di Italia ultima della classe è  anch’essa un’argomentazione strumentale a rinforzare le scelte politiche.

Ciò che, invece, dovrebbe preoccupare tutti sono piuttosto le grandi differenze delle scuole nelle diverse aree del Paese frutto di scelte politiche e non di debolezze pedagogiche o didattiche delle scuole o degli insegnanti di quelle aree.

La natura essenzialmente politica della scuola non esclude che ognuno di noi debba operare al meglio, ma con il senso del limite e con uno sguardo sistemico. Dire che la scuola italiana è arretrata (rispetto a quali criteri?) e proporre cambiamenti nei curricoli e nella didattica significa assumere l’obiettivo sbagliato.

Il formatore, il pedagogista, il didatta anziché leva di sviluppo,  diventa venditore di metodi quando si finge neutrale rispetto allo scenario politico e non cala la propria azione nello scenario politico in cui agisce ma può sfuggire all’autoreferenzialità e al delirio di onnipotenza se e quando la sua stessa azione è politica (come è politica l’azione quotidiana di ogni insegnante).

 

Concludo citando alcuni passaggi di una discussione in Facebook con Rosario Paone

Su OCSE e Invalsi non riprendo le questioni, ma cosa ci dicono?  Non che la scuola italiana sia indietro, ma che esiste un grave gap geografico e problemi di inclusione, diciamo per semplificare che esiste una selezione avversa tra scuole ed una forte correlazione tra condizione socioeconomica e successo formativo. Perciò, se è vero, occorrono politiche per ridurre i gap territoriali e le differenze sociali, pensare d’intervenire solo sulla scuola è demenziale e pensare d’intervenire solo sulla didattica peggio. Se allarghiamo lo sguardo vediamo ad esempio i tassi di asili nido presenti sul territorio o di tempo pieno, insieme ai tassi di disoccupazione e degrado sociali.

 

 

Dipende da che società vogliamo e da quale sia il fine della scuola. Oggi mi sembra si pensi ad una società competitiva che punta al profitto, con forti disuguaglianze secondo logiche di mercato e la scuola che si vorrebbe è coerente.

 

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