Inizio con questo una serie di post su questioni di scuola che mi si ripresentano con la lettura dell’importante libro di Gert Biesta Riscoprire l’insegnamento. Questi post hanno, per me, il valore di un’occasione di riflessione e di ripensamento delle mie idee sul senso di ciò che chiamiamo SCUOLA e sul lavoro dell’insegnante ma sono anche una raccolta di spunti presenti in quel libro, di passaggi importanti sui quali ritornare in un secondo momento. Sono post a prevalente mio uso e consumo ma che intendo condividere nella speranza che nasca qualche confronto con colleghi e colleghe che hanno dedicato del tempo al lavoro dell’Autore.

Da un po’ di tempo nel discorso popolare sulla scuola (anche quello fatto da tanta gente di scuola) viene enfatizzata l’importanza dell’apprendimento come esito del lavoro dell’insegnante.

Questo discorso si fonda sulla premessa che le due dimensioni (insegnamento e apprendimento) siano intimamente correlate, come se l’insegnamento producesse necessariamente apprendimento, come se l’apprendimento fosse generato solo dall’insegnamento.

Nella retorica di costoro, se lo studente non impara, la causa è nell’insegnante che non ha insegnato adeguatamente.

La successiva parte di questa argomentazione è se lo studente non impara è perché l’insegnante utilizza metodi didattici inadeguati.

Se la visione meccanicistica del rapporto insegnamento – apprendimento non è del tutto nuova, quella dell’inadeguatezza delle metodologie è relativamente più recente e fa parte dell’armamentario retorico dei riformisti della scuola italiana ed è, quindi, una posizione politica sul ruolo dell’insegnante, legittima – sia chiaro – ma non certamente una verità (come si vuol far credere) e neppure una posizione fondata su evidenze.

La fallacia di questa correlazione è disvelata anche dalla semplice evidenza empirica che qualunque persona, a qualunque età, su qualsiasi argomento impara anche senza insegnamento (inteso come atto volontario, esplicito, sistematico).

La correlazione insegnamento -apprendimento è un po’ più complessa della  banale sequenza meccanica postulata nel discorso popolare perché nel determinare l’apprendimento intervengono numerosi fattori appartenenti tanto al contesto quanto alla persona che vorrebbe apprendere.

Oltretutto, ritenere l’insegnante responsabile dell’apprendimento degli studenti significherebbe ritenere che gli studenti siano sempre e necessariamente oggetti di interventi esterni più che soggetti che agiscono e che hanno la loro parte di responsabilità all’interno del processo educativo (Biesta, pag 35).

La questione dell’apprendimento e del ruolo dell’insegnante viene esplorata dal punto di vista della filosofia dell’educazione e dell’epistemologia da Biesta nel suo libro (2017) recentemente tradotto in italiano (Riscoprire l’insegnamento, RaffaelloCortina Editore, 2022).

Qui l’Autore assume una prospettiva non convenzionale e non dogmatica andando alle radici della questione, denunciando la learnification (il voler ridurre la funzione dell’educazione e il ruolo dell’insegnante alla “produzione” di apprendimento) e sostenendo che il lavoro dell’insegnante consista in qualcosa di maggior valore che non sia la produzione di apprendimento, un punto di vista davvero insolito considerata l’enfasi che viene posta al giorno d’oggi sull’apprendimento come dimensione ineludibile dell’essere scuola, un dovere al quale nessuno si può sottrarre (p. 42, 43).

LIBERARE L’INSEGNAMENTO DALL’APPRENDIMENTO

L’insegnamento non deve mirare necessariamente all’apprendimento. Liberare l’insegnamento dell’apprendimento significa che il lavoro dell’insegnante consista aprire nuove possibilità esistenziali per gli studenti e in particolare nell’offrire loro opportunità per comprendere il senso  di esistere nel e con il mondo in modo adulto – opportunità che possono essere precluse qualora l’insegnamento risulti troppo legato all’apprendimento.

L’Autore si pone alcune domande:

  • L’insegnamento conduce necessariamente all’apprendimento?
  • L’obiettivo dell’insegnamento dovrebbe essere esclusivamente promuovere o favorire l’apprendimento?
  • È possibile pensare di insegnare al di fuori dei confini dell’apprendimento?
  • L’insegnamento può aver senso qualora si cerchi esplicitamente di tenere gli studenti lontani dall’apprendimento?
  • Gli insegnanti possono essere ritenuti responsabili di produzione di risultati di apprendimento?

Sono questioni importanti anche per capire di cosa l’insegnante possa essere ritenuto responsabile, una questione che Biesta ritiene squisitamente politica (tema che sarà affrontato nel secondo post, LA POLITICA DELL’APPRENDIMENTO).

Una prima (e non completa) proposta concettuale di Biesta è che …

… l’insegnamento (sia) in grado di aprire possibilità esistenziali, attraverso le quali gli studenti esplorano il significato del loro esistere come soggetti nel e con il mondo (p. 10) ….il compito educativo consiste nel rendere possibile l’esistenza adulta [vedi il concetto di ADULTITA’ e di SOCIETA’ DEGLI IMPULSI] di un altro essere umano nel e con il mondo …. nell’accendere, in un altro essere umano, il desiderio di voler esistere nel e con il mondo in modo adulto, cioè in quanto soggetto (p. 15). La sfida, quindi, è quella di esistere nel mondo senza considerarsene il centro, l’origine, o il fondamento (p. 17)

Per Biesta la learnification del discorso educativo (la focalizzazione del discorso educativo sull’apprendimento)  ha marginalizzato questioni educative cruciali che fanno riferimento alle finalità dell’insegnamento e più in generale dell’educazione.

Dire che lo scopo dell’insegnamento è l’apprendimento è limitativo. Non basta dire che lo scopo dell’insegnamento è che gli studenti imparino e basta ma bisogna dire imparare qualcosa, specificare per quali ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno (p. 40)

Se l’insegnante non può essere ritento responsabile dell’apprendimento dello studente, di cosa è legittimo ritenerlo responsabilità? Biesta, citando Fenstermacher, afferma che l’insegnante istruisce lo studente su come acquisire nuovi contenuti dall’insegnante stesso, da un testo o da altra fonte (p.38).

Ecco introdotto il concetto di studenting :

istruire il discente sulle procedure e sulle esigenze del ruolo dello studenting, selezionare il materiale da apprendere, adattarlo in modo che sia consono al suo livello, creare le opportunità più appropriate affinché il discente possa accedere al contenuto … monitorando e valutando i suoi progressi ed essendo a sua disposizione come una delle fonti primarie di conoscenza e abilità

Specificando chi sia responsabile di cosa, risulta chiaro che l’insegnante è responsabile dello svolgimento da parte dello studente delle azioni che gli dovrebbero consentire di apprendere ma non è responsabile del loro esito:

l’insegnante è ritenuto responsabile delle attività dello studente (apprendimento inteso come compito) e non della dimostrata acquisizione di contenuti da parte del discente (apprendimento inteso come conseguimento). Se l’insegnante ha fatto tutto quello che doveva e lo studente fallisce, questo deve assumersi la responsabilità del mancato risultato …. Gli insegnanti dovrebbero, quindi, promuovere l’attività dello studenting piuttosto che quella dell’apprendimento perchè l’apprendimento è l’effetto dello studenting e non dell’insegnamento (p.39).

Qualche altro appunto su concetti importanti

Learnification

E’ un termine che si riferisce alla tendenza, relativamente recente, che mira a esprimere molto, se non tutto ciò che c’è da dire sul tema dell’istruzione in termini di apprendimento (p. 40)

Quindi, ridurre il discorso sull’istruzione all’apprendimento, gli studenti sono learners, discenti, le scuole sono ambienti di apprendimento o luoghi deputati all’apprendimento, gli insegnanti sono facilitatori dell’apprendimento ….

Per un approccio “ricco” (termine mio) al discorso educativo vanno, invece, presi in considerazione il contenuto dell’azione educativa (e di “istruzione”? domanda mia), lo scopo della stessa e le relazioni che si instaurano.

Biesta precisa (p. 41) che l”educazione non si riferisce solo ad uno scopo ma a ad una serie di domini di scopo educativo (che vanno agiti in modo integrato) che sono:

  1. La preparazione
  2. La socializzazione
  3. La soggettivazione

ADULTITA’

A proposito del compito educativo, Biesta (p.15) sostiene che esso consiste nel

rendere possibile l’esistenza adulta di un altro essere umano nel e con il mondo …. accendere, in un altro essere umano, il desiderio di voler esistere nel e con il mondo adulto, cioè in quanto soggetto

L’essere adulto (adultità, grow-up-ness) non va visto come una fase di un processo di sviluppo ma una condizione esistenziale, una particolare qualità, un modo di esistere, una condizione in cui si è in grado di riconoscere che il mondo “là fuori” … non è un mondo che abbiamo costruito noi e neppure un modo che abbiamo a nostra disposizione, di cui possiamo fare liberamente ciò che vogliamo (p. 16).

L’adultità consiste nel riconoscere ciò che ho definito come l’alterità e l’integrità di ciò e di chi è altro da noi (p. 23).

Riconoscere l’esistenza di qualcosa che è altro da noi implica, tra l’altro riconoscere limiti alla nostra libera espressione e l’accettazione della frustrazione che questo genera. La frustrazione potrebbe portare alla distruzione del mondo (non riconoscere l’altro) o all’autodistruzione (non riconoscere il nostro diritto all’esistenza oppure una via di mezzo fatta, come afferma l’Autore, di un atteggiamento per il quale l’espressione di noi stessi incontra limiti, interruzioni e risposte). Questo è l’atteggiamento adulto. Il compito educativo consiste, infatti, nel suscitare in un altro essere umano il desiderio di stare nel mondo e in relazione con l’altro con difficoltà, con ciò e con chi è altro da noi (p. 25).

Una posizione opposta all’adultità è quella dell’egologico (Levinas, citato da Biesta p. 26), cioè chi persegue la logica dell’ego, non la logica del cosa e del chi è altro da noi …un modo d’essere generato dai desideri dell’Io. Ma, attenzione…

l’adultità non consiste nel sopprimere i desideri, ma in un processo attraverso il quale i nostri desideri sono ridimensionati dalla realtà, per così dire, che ci porterà a chiederci se ciò che desideriamo sia effettivamente desiderabile, per la nostra vita e per la vita che viviamo con gli altri…. L’ambizione, dunque, non coincide con l’estirpare i nostri desideri ma con il dar loro una forma e una qualità mondana, in modo che possano supportare e sostenere un modo di essere adulto e maturo dentro e con il mondo

Citando Spivak, l’Autore ritiene (P. 27) che l’educazione debba essere e si debba occupare di

RIASSETTO NON COERCITIVO DEL DESIDERIO

SOCIETA’ DELL’IMPULSO

Una postura egologica o non-egologica (corrispondenti a modi d’essere “infantili” e “non infantili”, non necessariamente riconducibili all’età delle persone) può essere influenzata dall’educazione (Biesta mette in guardia dal pericolo che l’educazione non diventi indottrinamento – il tema sarà affrontato più avanti) ed essere determinata anche da scelte personali ma, avverte:

Non dobbiamo dimenticare che anche l’ambiente in cui agiamo e viviamo invia messaggi forti e influenti. Nella misura in cui la vita moderna è strutturata dalla logica del capitalismo, potremmo dire che viviamo in un ambiente per nulla interessato a interrompere e limitare i nostri desideri, ma alla loro moltiplicazione: chi desidera di più comprerà sempre di più. Una “società dell’impulso” (Roberts, 2014) non ha a cuore la nostra maturità, ma preferisce che rimaniamo infantili, poiché è così che aumenteranno i profitti. (p. 27).

Mi verrebbe da aggiungere, con po’ di realismo in più di quello manifestato da Biesta, che, forse, la società ha a cuore la nostra maturità ma che la maturità stessa viene concepita in termini di possibilità/capacità di consumo. Azzardo: non è che nella società del consumo frenetico i cosiddetti diritti di cittadinanza siano declinati in termini di possibilità/capacità di essere produttori e consumatori? La nostra scuola sta andando in quella direzione.

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