Non per fare il cerchiobottista, atteggiamento che chi mi conosce bene sa non appartenermi, ma ritengo che tanto Settis quanto i pedagogisti abbiano una parte di ragione; entrambe le parti evidenziano questioni reali: Settis la fragilità della conoscenza che viene trasmessa a scuola, i pedagogisti l’essenzialità della didattica nell’insegnamento. Forse Settis considera l’eccesso della didattica la causa di quella che lui chiama la catena spezzata della trasmissione della conoscenza tra le generazioni, mentre io penso che ne sia la conseguenza.

L’intervento di Salvatore Settis, archeologo, storico dell’arte, per un decennio direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, in precedenza Preside della facoltà di Lettere e Filosofia presso la stessa università, ha messo in agitazione il mondo della pedagogia e della didattica nostrana.

Settis afferma che la “conoscenza” che si trasmette a scuola sia sempre più debole, che il sapere che lì si costruisce sia sempre più leggero e fragile, che le persone che la scuola forma anche nelle loro capacità di pensiero, nei fatti siano sempre meno dotate di autonomia e, per usare una categoria alla moda, possano godere sempre meno dei diritti di cittadinanza. Tutto questo, nell’analisi di Settis, sarebbe conseguenza dell’eccessiva intrusione nell’insegnamento della didattica: secondo lo studioso e intellettuale, infatti, a scuola si porrebbe più attenzione al come insegnare che non al cosa insegnare, gli insegnanti si focalizzerebbero (dedicando tempo e studio) ai metodi e trascurerebbero lo studio della propria disciplina, che non verrebbe quindi padroneggiata con sicurezza e per questo non potrebbe essere insegnata adeguatamente.

quel che stimola ogni trasmissione di conoscenza è l’appassionata pratica di un sapere e il conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una generazione all’altra.

Ho letto con attenzione i contributi di Antonio Brusa e di Cristiano Corsini e, bazzicando anch’io il mondo della pedagogia e della didattica concordo con le loro argomentazioni. Il mondo della pedagogia  ha, giustamente, motivo di insorgere prendendo alla lettera le parole di Settis, perché non basta conoscere una disciplina per insegnarla, almeno non lo è in relazione alle differenti tipologie di studenti. L’insegnante è un mediatore necessario tra i contenuti da apprendere e la persona che li vuole (o deve) apprendere, e questa mediazione è tanto più importante quanto meno gli studenti hanno capacità di autogestione del proprio apprendimento, quanto meno hanno capacità di astrazione e concettualizzazione, quanto meno hanno capacità di pensiero deduttivo, quanto meno sono interessati ad imparare e imparano perché devono. Il ruolo del mediatore dell’apprendimento è, quindi, correlato allo sviluppo cognitivo dello studente, alle sue risorse cognitive (questione rilevante quando abbiamo a che fare con persone mature o adulte), alla sua motivazione ad imparare. La mediazione didattica è certamente indispensabile con i bambini della scuola dell’infanzia, meno con studenti universitari o con adulti acculturati, con i quali potrebbe essere utile una buona organizzazione della comunicazione.

L’interrogativo, pur maldestramente e forse snobisticamente, posto da Settis porta alla nostra attenzione almeno due questioni importanti, che ritengo inducano a considerare che quella che lui chiama “la rottura della conoscenza” sia la causa e non l’effetto dell’eccesso di didattica. Tali questioni potrebbero  spiegare un “malfunzionamento” del pensiero di Settis, emendandolo. Sono entrambe, inoltre, questioni rilevanti per quanto riguarda la diagnosi dello stato della scuola italiana e gli interventi più appropriati per il suo miglioramento.

  1. La limitata conoscenza e/o comprensione della disciplina da parte dell’insegnante;
  2. L’abbassamento delle richieste che la scuola fa agli studenti.

Mi spiego.

Per la prima questione:

La didatticizzazione dell’insegnamento potrebbe essere il “rimedio” a carenze disciplinari, all’indebolimento della conoscenza della propria disciplina ed alla necessità di compensare la carenza sul versante della padronanza dei contenuti attraverso un sovraccarico (per dirla con Settis) di metodo.

Se l’insegnante non può agevolmente farsi una rappresentazione mentale agile, anche interconnessa con altri saperi significa che ha elaborato costrutti disciplinari deboli e, in buona sostanza, non padroneggia bene la disciplina. Però ci sono persone molto abili e padrone della disciplina che incontrano un grosso limite nella comunicazione: non si sanno relazionare positivamente e non riescono a costruire percorsi con gli allievi. In quel caso il problema non è di natura strettamente didattica ma più di tipo relazionale e psicologico. La debolezza del docente in ordine alla piena comprensione della sua materia spinge verso una metodologia che faccia da stampella… una sorta di dipendenza dalla didattica, come avviene per le altre forme di dipendenza, che spostano il problema fuori dal problema stesso e non giungono a soluzione, ovviamente.

David Jonassen, grande studioso dei processi cognitivi, affermava, sulla base dei suoi studi, che non di rado gli insegnanti dimostrano una comprensione debole della propria disciplina, che in questi insegnanti era presente più spesso la conoscenza dell’algoritmo della stessa che non il suo senso; il cosa, il come, ma non il perché.  La conseguenza della debole comprensione della disciplina è la generazione di misconcezioni che impediscono, secondo Jonassen, un insegnamento significativo e in questo modo la catena della non comprensione e delle misconcezioni si perpetua trasmettendosi da insegnante a studente.

Un insegnante che non conosce in modo significativo la propria disciplina (e quelle affini) non può insegnare in modo significativo: la debole conoscenza da parte dell’insegnante porta ad un altrettanto debole padronanza della conoscenza da parte degli studenti.

Si ha una comprensione epistemologicamente debole di un sapere, qualora non si possieda la conoscenza di come i suoi contenuti siano organizzati, in quale sequenza, con quali relazioni di causa e di effetto, con quali relazioni con discipline affini, entro quali confini le proposizioni di quel sapere siano valide. Quando, cioè, non si abbia un possesso sistematizzato, approfondito di un certo sapere e correlato con campi contigui.

Per ovviare alla limitata conoscenza e comprensione della disciplina (il cosa insegnare) ci si focalizza sulle didattiche (il come insegnare), come se le due dimensioni fossero intercambiabili. Non essendolo, si verifica quello su cui Settis richiama la nostra attenzione:  la rottura della catena del sapere, studenti che non imparano (in modo significativo) perché gli insegnanti non insegnano (in modo significativo).

Per la seconda questione.

La didatticizzazione dell’insegnamento potrebbe, però, essere dovuta anche ad altra causa: nella nostra società orientata ai consumi e ad un fare senza pensiero è in atto da anni la svalorizzazione della funzione intellettuale, dell’utilità del pensiero, del piacere del ragionamento, a favore dell’azione.

Una funzione non allenata si indebolisce: meno ci si allena al pensiero, meno si è capaci di pensare; ci si avvita così in un circuito vizioso.

Succede pertanto che poiché a scuola arrivano frequentemente studenti che non sanno pensare, che non vogliono pensare, che ritengono una fatica inutile pensare, più che lavorare per recuperare la funzione cognitiva compromessa (quasi in funzione riabilitativa), ci si adegui, si abbassino le aspettative e le richieste, si riducano i contenuti da trattare e il loro approfondimento. Si propongono sempre meno contenuti da imparare e ci si accontenta di quel poco che serva a “realizzare un prodotto” (alcuni chiamano questa forma di azione “competenza”), senza, tuttavia, favorire la comprensione del perché. Con questo approccio si promuove un’acquisizione meccanica di conoscenza che per sua natura è di limitata trasferibilità. Facilitare l’apprendimento non significa rendere un buon servizio allo studente e neppure alla società; forse sarebbe il caso di rendere la scuola un po’ più difficile.

Però, per fare in modo che anche persone con limitate risorse cognitive e motivazionali riescano ad imparare anche quel poco, si escogitano metodi per rendere allettante, gradevole, leggero e facile l’apprendimento e si finisce, così,  con il dedicarsi esclusivamente al metodo ritenuto, a questo punto, la via maestra allo sviluppo di conoscenza.

Tra insegnanti che non sanno insegnare e studenti che non vogliono imparare, la soluzione che si è scelto di adottare nella scuola è quella di spingere su come gestire i contenuti senza preoccuparsi più di tanto del miglioramento della loro conoscenza e della loro comprensione.

Questa è una linea su cui spinge anche il ministero. La motivazione ufficiale è “mettere al centro lo studente” (le sue motivazioni, i suoi problemi) e non i contenuti e la disciplina. In realtà quello che sta avvenendo è che si sta mettendo al centro del processo didattico un ben preciso modello di società (non lo studente), assegnando alla scuola il compito di adattare lo studente a quel modello.

Ma, forse, il ministero compie un atto di realismo: prende atto della situazione, non assume una visione alta della scuola, accetta la preparazione superficiale sulle discipline degli insegnanti (magari sta preparando il terreno al superamento delle discipline come criterio di strutturazione dei curricoli), non pone obiettivi di apprendimento impegnativi ed elevati per tutti e con rassegnazione promuove l’unica azione possibile: cerchiamo di sfangarla con un po’ di metodi, meglio se innovativi.

https://emergenzacultura.org/2018/03/15/salvatore-settis-scuola-la-catena-del-sapere-spezzata-2/

 

http://www.laricerca.loescher.it/istruzione/1708-i-contenuti-e-il-contatto.

 

https://www.scuolazoo.com/info-studenti/diari/diario-del-professore/la-scuola-deve-ricominciare-ad-essere-difficile/

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