La narrazione che va avanti (ripetuta come un mantra) da anni della scuola che “non funziona”, che “non prepara” (a cosa?), che “non serve a nulla”, neanche a lavorare; la narrazione dell’insegnante “incapace” e “fannullone”, della sua “resistenza al cambiamento”, del suo “non volersi adattare ai cambiamenti”, del “non accettare di buon grado la sua formazione” (l’elenco delle accuse si allunga ogni giorno con argomentazioni che oscillano tra il pretestuoso e il ridicolo) un risultato lo ha ottenuto: l’insegnante ha, infine, introiettato la colpa e si sente così inadeguato da essere, per tale motivo, pronto ad espiare il peccato, ad accettare la formazione su didattiche innovative.
In tal modo, l’insegnante si emenda dalla colpa della vecchiaia e dell’inadeguatezza, sa stare al passo con i tempi, si è messo in gioco (altro mantra stucchevole e privo di significato) ed è annoverato nell’empireo dei bravi insegnanti, quelli che parlano, finalmente, il linguaggio dei giovani d’oggi, che sanno far tesoro dei nuovi ritrovati della tecnica e della pedagogia.
Morale della favola: si spinge verso metodi di non comprovato valore, si spiana tutto il passato pedagogico, si usa la leva becera dei premi e delle punizioni. L’unico assunto, non dimostrato, è che il cambiamento non si può rifiutare. Questo “cambiamento” va rifiutato.