ferroni

Ovvero:

Per una scuola possibile: conciliare umanesimo, tecnologia ed economia è la sfida che ci attende.

«Tutti cercano la scuola del futuro e credono di trovarla

in una visione del futuro

che è però solo il riflesso dell’immagine del presente:

non il presente reale,

ma quello sognato nei passati decenni

della grande espansione delle società occidentali».

G. Ferroni

 

Un post un po’ lungo ma i discorsi importanti non sono leggeri. Ogni tanto ci può stare. La mia sintesi è nei 4 punti citati.

Mi è stata segnalata la recensione (di un anno fa, al’incirca) ad un interessante saggio di Giulio Ferroni, “La scuola impossibile”, 2015, Salerno Editrice.

Non conoscevo Ferroni prima di questa segnalazione (colpa gravissima) e scopro che si tratta di uno fra i più eminenti storici della Letteratura Italiana.  Le sue sono le riflessioni di un grande intellettuale, di un uomo cui non sfugge la complessità dei problemi e della realtà, una persona dallo sguardo lungimirante, che trova le connessioni tra strutture consolidate e mutamenti in atto, fornendo una lettura non superficiale né banale della realtà.

Cerco di riassumere, attraverso la recensione, e riservandomi di leggere a breve il suo saggio, il pensiero di Ferroni sulla scuola.

In breve, i concetti chiave:

  1. L’ idea di “Umanesimo“, intesa nel senso nobile attribuito al termine dal Rinascimento, come antidoto all’egemonia della banalità.
  2. Il concetto di studio per la conoscenza come impegno e fatica, vera palestra per mente e spirito, contro l’idea che si afferma con sempre maggiore forza di “edutainment”.
  3. L’imprescindibile valore etico della scuola, vera fucina per forgiare menti libere.
  4. Le catene delle competenze europee (EQF), figlie di una visione aziendalistica dell’uomo, che lo rendono efficiente esecutore, ma non persona libera, intellettualmente autonoma, in grado di progettare mondi diversi.

Più in dettaglio: sul valore alto della scuola, sulle implicazioni dell’occuparsi di scuola, al di là del dare esecuzione alle circolari ministeriali (che potrebbero rappresentare al più lo sfondo normativo su cui muoversi, senza limitarsi alla loro esecuzione meccanica, come troppo spesso accade):

«riflettere sulla scuola […] equivale a pensare al destino del proprio paese, dell’umanità, del mondo; […] è qualcosa di tremendamente globale, che chiama in causa il senso e il valore della vita, le ragioni stesse del nostro essere al mondo, la cura dei propri figli e di tutto ciò che si ama».

In un successivo passaggio mi ritorna in mente un imperativo lanciato al Word Economic Forum di Davos (economisti, imprenditori, politici, persone di scienza) Staying human : la sollecitazione ad un nuovo umanesimo come protezione all’invadenza delle tecnologie e come strumento per piegare le tecnologie stesse ai bisogni della persona, più che a quelli dell’economia:

«Qui, parlando di scuola, l’umanesimo viene definito “ultima resistenza“, necessario (quanto più liquidato) contravveleno al presente e ad alcune sue cecità: l’astratta fungibilità di parole, cose, persino uomini,all’interno di un sistema che a tutto deve assegnare la sua razionale e non disfunzionale collocazione; lo schiacciamento delle prospettive di vita sul presente, la pura immanenza della nostra modernità».

 

Robot - uomo

 

 

Due sono i temi su cui si intrattiene Ferroni: le “competenze” e le tecnologie, questioni tra di loro interconnesse, soprattutto se considerate in rapporto alla didattica disciplinare:

«Non è perciò un caso che Ferroni si intrattenga a lungo sulla “scuola 2.0“, una scuola, secondo il critico, ludica e plasmabile, che elimina la fatica dell’apprendimento e, per una fraintesa centralità del discente, enfatizza l’immediata prestazione, la scomponibilità e ricomponibilità del sapere (ricordando molto, in queste osservazioni, il noto pamphlet di Lucio Russo, La cultura componibile). Ferroni, pur riconoscendo l’utilità della connessione Internet a scuola e delle possibilità di accesso alle informazioni che la Rete mette a disposizione, è fermo nel dire che la didattica non può essere integralmente dedotta dalle nuove tecnologie».

Il critico prosegue quindi con la tesi, diametralmente opposta a quella propugnata dall’attuale orientamento culturale internazionale (e amministrativo-economico) secondo cui la scuola dovrebbe, proprio per arginare la deriva tecnocratica, che conduce ad una polverizzazione dell’impianto epistemologico dei saperi:

«opporre […] un’ inesausta fiducia nella centralità delle discipline, affrontate nella loro concretezza e alterità».

Ferroni considera i saperi disciplinari, nel proprio assetto epistemologico, imprescindibili per la maturazione non solo di conoscenze (che sono in ogni caso alla base di ogni processo serio di apprendimento e, nella più osservante prospettiva umanistica, non opposte tra artistico-letterarie e scientifiche, ricordando come queste ultime siano scaturite dal pensiero filosofico), ma anche per lo sviluppo di competenze che solo dallo studio approfondito e meditato, dall’ardua e impegnativa pratica del sapere disciplinare nel contesto della vita reale possono scaturire. Considera l’estrazione di “otto competenze” (otto solamente!) da saperi come la Letteratura, la Storia, ma anche le Scienze, come una astratta e innaturale applicazione di metodologie didattiche che finalizzano la conoscenza ad una visione banalizzata (ed economica) dell’apprendimento, e che impediscono quello “scavo profondo nel corpo denso dei saperi”, che è alla base della conoscenza umana:

«dalla letteratura, dalla storia, dalla geografia, ma anche dalle scienze (scienze e umanesimo non sono in opposizione, ricorda lo studioso: la scienza nasce dalla libertà di coscienza e dalla ricerca della verità, cioè dall’idea di dignità dell’uomo del Rinascimento), non si dovrebbero estrarre qualità astratte come le competenze (pertinente a questo riguardo il richiamo alle «Otto competenze chiave» proposte dall’Europa: competenze a metà strada tra la formalizzazione dell’ovvio e quella del general-generico); piuttosto, il loro studio dovrebbe essere uno scavo in profondità, nel corpo denso di ciascuna di esse, un corpo che è disposto nello spazio e nel tempo, i due fondamentali apriori di ogni conoscenza umana. Questo carattere di solida concretezza rende le discipline ardue, richiede una necessaria, lenta, paziente applicazione alla loro «alterità e resistenza (omologa, del resto, alla resistenza della realtà)».

E, ancora,  lo studioso afferma che se è pur assodato che una didattica puramente trasmissiva e nozionistica non sia utile allo sviluppo del pensiero critico, della capacità di problem solving e di tutte quelle abilità che sono richieste alla persona che si trova a vivere in una società così complessa, è tuttavia fuorviante e mistificatorio sostenere che tali abilità possano essere acquisite attraverso “corsi di pedagogia e didattica” e non “dall’esercizio vivo del loro (delle discipline, n.d.a.) studio:

«Se nella Buona scuola è scritto che l’Italia avrebbe bisogno di docenti «che non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem solving, decision making, capacità di apprendere) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne» [cit. nel testo], Ferroni osserva che si tratta di «cose variamente importanti, queste (a parte la loro vernice di efficienza manageriale), ma che non mi pare proprio si possano acquistare attraverso corsi di pedagogia e di didattica e che possono soltanto scaturire dall’interno delle specifiche discipline, dall’esercizio vivo del loro studio: proprio arti, scienze, filosofia, nel loro adeguato approfondimento, nella loro pratica matura e critica, e non certo astratte elucubrazioni pedagogico/didattiche, possono svolgere dal loro seno, entro la propria stessa struttura, orizzonti problematici, aperture creative, abilità collaborative, ….».

Contro una scuola «ludica e plasmabile, che elimina la fatica dell’apprendimento» e che, poiché fondata su una «fraintesa centralità del discente  […] enfatizza l’immediata prestazione, la scomponibilità e ricomponibilità del sapere», Ferroni afferma con forza che «la didattica non può essere integralmente dedotta dalle nuove tecnologie».

Osserva, infine, come per un apprendimento di qualità servano non solo la competenza di lettura (e di scrittura), ma anche lettura di qualità. Ecco come gli insegnanti, in particolare quelli di materie letterarie, ma non solo,  possono intervenire: attraverso l’esercizio della narrazione (fruita e prodotta) e quello dell’argomentazione, fornendo ai discenti esempi “alti” di pensiero, attraverso i quali essi possano «esercitare la propria capacità di narrare e argomentare, curando la ricchezza della lingua, la capacità di usarla con chiarezza, proprietà, misura logica: lingua e parola intese come cardine dello scambio umano, «necessari fondamenti della democrazia». La scuola dovrebbe essere baluardo, “presidio” di cultura e di democrazia, e interpretare un ruolo fondamentale nell’educazione all’impegno civile e nella costruzione di un’idea del futuro: quella del mondo post-industriale, in opposizione con quella della passata espansione delle società occidentali, che di queste è, tuttavia, succube, proiettata verso un’immagine che non costituisce più la realtà del nostro mondo:

«tutti cercano la scuola del futuro e credono di trovarla in una visione del futuro che è però solo il riflesso dell’immagine del presente: non il presente reale, ma quello sognato nei passati decenni della grande espansione delle società occidentali».

Caduti i grandi sistemi ideologici, non sono cadute le conflittualità dei sistemi sociali, economici e culturali. Allora, la strategia attuale è quella di “rimuovere il conflitto”, imponendo una visione “pacificatrice”, nella quale ogni forma di conflitto sia all’apparenza risolta, nella quale il miraggio della crescita e dell’espansione di diritti non conflittuali alimenti tanto una politica che narcotizza il conflitto, quanto una crescente “antipolitica” che intercetta la realtà e smaschera l’inganno, senza peraltro proporre soluzioni costruttive. In questo contesto, a giudizio di Ferroni, le otto competenze generano una scuola

«pacificata e neutralizzata, il cui compito sembra essere quello, irenico, di fornire un giusto numero di conoscenze e capacità per essere cittadini e lavoratori felici: forse però al prezzo di operare una vera e propria “rimozione del trauma”. La scuola, sembra dirci Ferroni, è il luogo dove si può continuare a elaborare quel trauma; non per contemplarlo come si contempla il proprio ombelico, ma per garantire alle future generazioni una comprensione del mondo all’altezza del difficile compito che spetta a ciascun uomo e donna: agire in esso».

Avrà il mondo della scuola la capacità di riflettere su questi temi così importanti per il futuro che noi tutti siamo chiamati a costruire? Avrà sufficiente consapevolezza (e formazione) per opporre ad una visione tecnocratica, centrata su valori essenzialmente macroeconomici, un paradigma che integri la necessità di non perdere l’idea di centralità dell’uomo e della sua crescita culturale e civile con le opportunità che la tecnologia e le istanze (quelle legittime) economiche offrono? Sarà una scuola che subisce cambiamenti imposti dall’alto, o che contribuirà a progettarli e a realizzarli?

Ringrazio Fulvia Carbonera per l’aiuto che mi ha dato nello sviluppo del testo e nella sua revisione.

http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/371-la-nostra-responsabilit%C3%A0-verso-il-futuro-su-la-scuola-impossibile-di-giulio-ferroni-salerno-editrice,-2015,-p-123.html

 

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Un pensiero su “Saperi disciplinari vs competenze e tecnocrazia”

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