(lettura ipertestuale d’annata)

Un breve post di replica a Roberto Maragliano, che nel suo post “Conservazione. Fatto” bolla, con affrettata superficialità (pan per focaccia) come “pomposo” l’ Appello per la scuola pubblica dei 400 di dicembre (occhio, Roberto, SIAMO a più di dieci volte tanto, a oltre 5000). L’accusa principale che lui formula contro questo documento è quella di essere un documento conservatore, attribuendo a questo termine una valenza negativa. L’insieme delle argomentazioni lì fornite a supporto dell’ “accusa” sono, a mio avviso, generiche e stereotipate.

Schematicamente alcune mie riflessioni:

  1. L’INNOVAZIONE NON E’ IN SÉ UN VALORE POSITIVO. Pur essendo un comportamento e un atteggiamento circondato nel senso comune da un’aura di positività, in molti contesti (e tra questi quello educativo),  l’ “innovazione” non costituisce necessariamente un agire positivo, così  come “conservazione” non rappresenta necessariamente e in tutte le circostanze un atteggiamento negativo, anche se sta prendendo piede, all’interno della retorica ufficiale della scuola a la pàge, il vezzo di bollare come conservatori coloro che sono portatori di una visione culturale e, perché no, politica, differente e non cedono alle lusinghe delle sedicenti innovazioni.
    1. Tanta “conservazione” è positiva, è necessaria, è la base del fluire della vita. Tanta “innovazione” è dannosa, tanti cambiamenti portano al peggioramento della qualità della vita per la maggior parte delle persone (la globalizzazione, la finanziarizazione dell’economia, la robottizzazione spinta del lavoro…).
    2. L’associazione innovazione -positività non è automatica e non è sempre vera: ci sono anche innovazioni distruttive. Quando si fa retorica dell’innovazione si fa un’operazione falsa, disonesta. Bisognerebbe dire cosa va cambiato, perché va cambiato, con cosa si sostituisce l’obsoleto, bisognerebbe portare prove a sostegno dell’affermazione del maggior valore del nuovo rispetto al vecchio, soprattutto quando questo non è percepito con immediatezza al “consumatore” (gli smartphone, ad esempio, si sono imposti senza il bisogno di tanta pubblicità per accreditarne il valore),
    3. Circa la maggiore efficacia di alcune metodologie “innovative” (di stampo costruttivista, alle quali anch’io mi ispiro), la letteratura scientifica non ha dimostrato la loro maggior efficacia rispetto alle didattiche più tradizionali (istruzioniste, per capirci). Un’articolata discussione di qualche anno fa tra Jonassen (psicologo cognitivista, costruttivista convinto) e Duffy, istruzionista (1), ha portato Jonassen a concludere che le evidenze inoppugnabili portano a ritenere le strategie costruttiviste sicuramente più efficaci di quelle istruzioniste nel conseguimento di obiettivi di apprendimento di ordine elevato (comprensione, problem solving, flessibilità cognitiva), mentre quelle istruzioniste sono certamente più efficaci nel caso di un’utenza con ridotte capacità cognitive e per semplici apprendimenti meccanici. Fondare tutta la politica di miglioramento della scuola italiana su questo (ma su qualsiasi) orientamento pedagogico e didattico, e farlo in modo prescrittivo come sta avvenendo nella nostra scuola, è quantomeno azzardato. E’ un’operazione priva di fondamento scientifico ma di elevato impatto “politico” sul piano dell’immagine.
    4. Comportamenti patologici si possono rinvenire tanto nei comportamenti conservatori che innovatori (innovazione di comodo, conservazione di comodo).
    5. L’ingiunzione a cambiare per cambiare non ha alcun fondamento razionale e pratico e pertanto va, in tutta tranquillità, rispedita al mittente. Chi innova non è migliore di chi non innova.

 

  1. LE DISCIPLINE SONO LA REALTÀ’. L’organizzazione del sapere in “discipline, ritenuto non più adeguato da Maragliano (che non dice perché una scuola articolata attorno alle discipline restituirebbe l’idea “arida e polverosa” di scuola) è stato fondamentale nello sviluppo della cultura occidentale fin dall’Illuminismo. Citando a sostegno dello svecchiamento della scuola tutto ciò che la cultura scolastica e universitaria ha sviluppato dagli anni Cinquanta agli anni Novanta del secolo scorso per rendere attiva la didattica e aprire la scuola al mondo, Maragliano confonde i due piani del senso delle “discipline” e della loro didattica. A difesa delle discipline e della loro “realtà” vanno ricordate alcune cose:
    1. I contenuti dei saperi sono organizzati dentro le “discipline”, secondo un “quadro di riferimento” che è andato definendosi (e riaggiornandosi nel tempo in ordine a contenuti e metodologie) insieme allo sviluppo del pensiero scientifico moderno, tenendosi nel solco della tradizione culturale europea, e ciò ha permesso di conseguire, attraverso una scuola organizzata attorno a queste, i risultati scientifici, economici, culturali e sociali che noi tutti conosciamo. Non è chiaro il motivo per cui questa modalità di organizzazione del sapere non sia più attuale, cosa non riesca cogliere della realtà, per quali apprendimenti non sia più funzionale.
    2. I saperi non sono entità immobili, ma si ampliano e si integrano, anche contaminandosi e ridefinendo il loro impianto epistemologico, per cui possono e devono essere aggiornati quando nuova conoscenza viene sviluppata, e questo vale sia per le discipline scientifiche, sia per quelle umanistiche, pur nelle differenti caratteristiche dei vari segmenti di conoscenza.
    3. Nella costruzione dei curricoli non va dimenticato che una disciplina è un “organismo vivente” e come tale ha una sua precisa organizzazione interna, sue “regole” di funzionamento (il “modo di pensare” di ogni disciplina); non si può pensare che una “disciplina” funzioni amputando a caso e per i propri comodi vari pezzi. I contenuti essenziali (quelli che determinano la sua identità, la sua essenza) vanno mantenuti, pena la perdita del valore della disciplina stessa e l’inconsistenza degli apprendimenti che verrebbero in tal modo sviluppati, tanto in termini di “contenuti” che di processi cognitivi associati, in modo lacunoso e non significativo.
    4. Una ridefinizione efficace dei curricoli dovrebbe riconsiderare, più che l’alleggerimento dei contenuti disciplinari, l’utilità effettiva di un’organizzazione per classi e cicli, e magari valutare una differente organizzazione, che preveda una solida alfabetizzazione di base, sostenuta dall’acquisizione di strumenti, metodologie, dall’approccio, riferito ovviamente all’età, alla discussione e alla risoluzione di problemi, per giungere solo successivamente ai contenuti disciplinari, non ripetuti “ciclicamente”, bensì affrontati criticamente con il bagaglio di strumenti acquisiti durante il percorso.
  2. LA DIDATTICA DELLE DISCIPLINE È DIDATTICA DEL REALE. I problemi di apprendimento che taluni (ad esempio Maragliano sollecita ad una didattica “innovativa” che recuperi il reale) mettono in evidenza a proposito dell’inefficacia della didattica disciplinare non sono dovuti al dis-valore intrinseco delle discipline ma al modo di insegnarle che si è spontaneamente imposto:
    1. Una “disciplina” non è “teoria” ma è “realtà”: una “disciplina” altro non è che la rappresentazione (astrazione) di una parte della realtà. Nella “disciplina” la realtà viene in un certo senso frantumata a scopo di studio e di comunicazione e in questa scomposizione la realtà potrebbe perdere, soprattutto nella rappresentazione mentale dei novizi con strutture cognitive poco sviluppate e poco allenamento all’astrazione, una parte del suo significato e diventare “teoria” nel senso deteriore del termine.
    2. Quando le didattiche disciplinari non sono efficaci, quando sviluppano un mero apprendimento meccanico (memorizzazione e ripetizione) e non apprendimento significativo (comprensione, applicazione, transfer), la causa sta nelle modalità didattiche che l’insegnante utilizza, nelle attività di apprendimento che propone, non nelle discipline in quanto tali.
    3. Didattiche disciplinari poco o nulla efficaci sono dovute, anche, alla debole comprensione che l’insegnante stesso ha della sua disciplina (quella in cui è formalmente dichiarato esperto e abilitato all’insegnamento), spesso confinata nella conoscenza del suo algoritmo (sequenza di regole, di fatti …) senza arrivare al suo significato. È banale osservare che se un insegnante non ha “capito” bene la propria disciplina, non ne ha compreso struttura profonda e impatto cognitivo, non la può certo insegnare e aiutare ad apprendere in modo significativo (ecco da dove nasce la meccanicità dello studio).
    4. La questione è didattica più che epistemologica: come superare, nella pratica didattica, la compartimentazione delle discipline riflettendo sullo statuto di ogni disciplina e sui suoi nuclei fondanti, interrogandosi sulle finalità e sul senso profondo di ogni disciplina. La definizione dei saperi disciplinari irrinunciabili richiede, comunque, un ampio dibattito epistemologico e didattico (cosa rimane valido dei lavori della “commissione dei saggi” che dal 1997 al 2000 – Maragliano compreso – ha lavorato sulla tematica?) – e non surrettizi e improvvisati stravolgimenti dei curricoli come sta avvenendo nella frenesia nuovista di parte della scuola italiana.
  3. LA STRUTTURA VS. RAPPRESENTAZIONE E ACCESSO ALLA CONOSCENZA. In più occasioni Maragliano osserva che nell’era della rete la struttura della conoscenza è cambiata, non è più “lineare-libresca” ed è diventata “reticolare-ipertestuale” e per questo la scuola deve cambiare. Ebbene, la conoscenza è sempre stata “reticolare”, cioè intrecciata, con numerose e diversificate interconnessioni. È la reticolarità della conoscenza che rende possibile la “comprensione” e questa forma di processo cognitivo è presente ben da prima delle “rete” digitale (Wittgenstein parlava di “criss-cross landscape” a proposito delle modalità di accesso ed appropriazione della conoscenza). Quello che il digitale e il web hanno certamente facilitato è la rappresentazione e la fruizione della conoscenza in modalità reticolare, ma non hanno cambiato la struttura della conoscenza

Concludo citando (non ricordo chi, forse era Michele Serra, tempo fa): C’è chi fa l’innovatore per non sentirsi vecchio. Ebbene io, forse per sentirmi giovane, faccio il conservatore.

Spero sia evidente che questo non è un post ad personam e ho colto al balzo uno scritto del sempre stimato Maragliano (in gioventù mi sono formato sui suoi libri, sia chiaro) per dire la mia su questioni che circolano da un pezzo nella bocca degli “innovatori” della scuola italiana e che hanno rapidamente arruolato il Maestro nella loro squadra.

  1. Contructivism and the Tecnology of Instruction. A Conversation, 1992

 

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Un pensiero su “A difesa della didattica disciplinare (per l’apprendimento significativo)”

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