Mi capita sempre più spesso di parlare di didattiche “light“, leggere, deboli, meccaniche, approssimative, a volte anche stupide ed offensive per gli insegnanti che le praticano e gli studenti che le subiscono.

Sono didattiche semplici, facili da realizzare, basta solo copiare un esercizio da un libro di testo, da un manuale, da un blog, magari senza alcuna contestualizzazione.

Sono quelle basate su metodi fideistici, magari di una certa validità nel contesto in cui è stato inventato ma non generalizzabile e del tutto incoerente con una specifica realtà.

Sono didattiche sempre più diffuse (vedi il coding  ma anche la classe rovesciata) il cui successo può essere attribuito proprio alla facilità con cui si possono realizzare, tanto che, ad esempio, per il coding non serve saperne di programmazione ….. E sempre più spesso si presentano app creative all’insegna del “non serve conoscere …..”

Didattiche facili per insegnanti che non sono in grado di impegnarsi in attività strong, dure, solide, di crearsi le proprie strategie e i propri strumenti operativi. Nulla di  male se lo scopo è sopravvivere (come insegnante).

Il vero problema è che queste didattiche generano negli studenti un apprendimento meccanico, non lo impegnano nel pensiero, non ne sviluppano la struttura cognitiva, non consentono loro di comprendere la disciplina ma, ben che vada,  a possederne l’algoritmo operativo, li porta ad apprendere in modo superficiale e con tante misconcezioni e a sviluppare delle teorie implicite errate.

Sono didattiche che se salvano l’insegnante, condannano lo studente.

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