Che a scuola il lessico professionale sia approssimativo e fantasioso è cosa nota: lo stesso termine porta significati differenti, alla stessa pratica si danno denominazioni differenti, si generano neologismi privi di concettualizzazione e significato e disancorati dalla letteratura accreditata, spesso in buona fede, altre volte per furbizia (vedi l’editoria scolastica ai tempi delle competenze). Segno di una comunità professionale non ancora consolidata e solida nei principi? Possibile….

Nulla di strano che si confondano abilità con competenze, traguardi con obiettivi, compiti autentici con esercizi di valutazione, che ci si perda tra compiti autentici, compiti di realtà e compiti autentici di realtà…

Proviamo a mettere qualche punto fermo almeno a livello di lessico? Il dramma del passaggio dalle parole ai fatti lo affronteremo in un secondo momento.

L’approssimazione lessicale è indicativa anche di analoga e ancor più grave approssimazione concettuale. Il disposto congiunto delle due approssimazioni porta ad un’incerta ed inefficace operatività didattica.

Provo a fare qualche ipotesi per trovare il bandolo della matassa.

Possiamo assumere convenzionalmente (per le “competenze” e per il primo ciclo d’istruzione) di usare le indicazioni nazionali come criterio regolatore del nostro linguaggio professionale? Pare poco, ma, a mio avviso è già un bel passo avanti.

COMPETENZE: o parliamo di “competenza” nell’accezione comune del termine (quel meccanico, quel medico è davvero competente …) o ne parliamo nella prospettiva educativa indicata alle scuole (l’Europa ci chiede, il ministero ci obbliga…). Nel secondo caso le competenze sono solo 8 (ad onor del vero, quelle “italiane” sarebbero 10), quelle scritte nella scheda per la certificazione. Altre “competenze” (formalmente definite) non esistono … oppure ciascuno di noi persegue la propria idea di competenza e… liberi tutti. Possiamo anche chiamare “competenza” qualsiasi entità ma poi non ci capiamo più.

Se, poi, passiamo alle competenze così dette ” disciplinari”, tanto che ci si riferisca al costrutto proprio di competenza, che se ci riferiamo alla competenza così come viene definita nelle indicazioni nazionali, “competenze disciplinari” non ne esistono. Nel primo caso, val la pena ricordare che “competenza” riguarda il far fronte a problemi e attività reali, attività che non sono in alcun modo riferibili ad una dimensione “disciplinare”: la realtà è “interdisciplinare” (una “disciplina” è la formalizzazione di un aspetto della realtà), nel secondo, cioè la sua versione scolastica come viene presentata nelle Indicazioni nazionali, il concetto di “competenza disciplinare” è, ad essere gentili, un ossimoro. Evitiamolo, orsù.

TRAGUARDI: quelle che alcuni chiamano “competenze disciplinari” sono, ai sensi delle indicazioni nazionali, nulla di diverso da “traguardi”: è così che sono denominate le micro “prestazioni” riferite ad una disciplina che troviamo descritte nelle citate indicazioni nazionali.

Forse, un po’ di confusione può essere generata dal fatto che tanto i “traguardi” che le “competenze” rappresentano delle “prestazioni”, cioè un insieme di azioni svolte nella prospettiva di conseguire un risultato. Ma i traguardi sono traguardi e le competenze, competenze.

Nell’operatività formativa io suggerisco di usare i traguardi come “unità di competenza” (occhio a come, poi, ricomporre i traguardi per arrivare a una competenza! In una prospettiva sistemica l’insieme è più della sommatoria delle parti). Va ricordato che nella documentazione ufficiale i traguardi sono definiti anche come “criteri” per la valutazione della competenza; ma anche per la formazione, aggiungo io, della competenza.

COMPITI AUTENTICI: più complesso è disambiguare questo termine per le troppe stratificazioni che si  sono avute per merito di editori, esperti, pseudo-esperti e creativi vari, Il “compito autentico” nasce come la restituzione didattica del costrutto di “apprendimento significativo” (che considero un vero e proprio ambiente di apprendimento adatto a sviluppare e valutare competenze) e come tale è presente in letteratura da una cinquantina d’anni (Ausubel coniò il termine verso la metà del secolo scorso, nulla di “innovativo”, pertanto).

La definizione di “compito autentico” è ampia come ampio è il costrutto stesso e, in ogni caso, fa riferimento ad un’attività di apprendimento di una certa durata, interdisciplinare, a sviluppo aperto, con l’utilizzo in esso di elementi di realtà e agito anche nella realtà, in cui l’apprendimento e la sua valutazione sono agiti in modo integrato.

Un compito autentico NON è un esercizio breve, disciplinare, simulato, prescrittivo, fatto al banco di scuola e sul quaderno, a solo scopo di valutazione; un compito autentico non ha nulla a che vedere con un abituale esercizio scolastico (utilissimo per altro scopo, ma non per l’apprendimento significativo).

“La mamma va al mercato e compera 3 dozzine di uova”, non è un compito autentico pur facendo riferimento alla realtà (la mamma, il mercato, le uova), ma è una realtà simulata, una realtà presente solo nelle parole, non nell’esperienza del bambino alle prese con le uova.

Forse, questo esercizietto (e tanti altri simili presenti nella manualistica delle competenze) potrebbe far parte di un compito autentico qualora lo studente si rendesse conto di dover realmente andare a comprare delle uova (3 dozzine, con la borsa adeguata, con i soldi sufficienti, stimando il tempo, tracciando la strada su una pianta, correndo il rischio di essere messo sotto da una bicicletta …) come azione da lui identificata nell’ambito di una più ampia attività da svolgere ….

Vogliamo chiamare un simile approccio “compito di realtà” (diversa traduzione di “authentic task”)? Facciamolo pure,  sempre ché le caratteristiche ci siano tutte (o quasi). Altrimenti chiamiamolo “esercizio” (anche più lungo del solito); gli “esercizi” scolastici una loro validità ce l’hanno, se usati al momento giusto e per scopi coerenti. Un “compito autentico” contribuisce a sviluppare competenze solo se ha le caratteristiche del compito autentico, chiamato come si vuole, purché il concetto sia chiaro.

PS: le competenze non si sviluppano e non si valutano lavorando sul banco di scuola, scrivendo sul quaderno e lavorando come uno studente (nel senso usuale del termine). Le competenze richiedono un’azione didattica che supera le classiche pratiche scolastiche. Dovendosi, però, esercitare a scuola, il vero problema è come fare didattica per le competenze in condizioni ordinarie, di sostenibilità e che non si traduca nello sviluppo di un surrogato.

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