discipline

Per la serie, la parola agli insegnanti, saccheggio il pensiero di Matilde Sacchi, maestra di scuola primaria, che con una serie di commenti in discussioni su Facebook attivate dal post Light Learning, focalizza la questione della didattica solida vs didattica leggera, riflettendo anche sulle “discipline”, sul loro significato e su quanto sta avvenendo, dal suo punto di osservazione, nella scuola contemporanea.

Il tema che, riga dopo riga, discussione dopo discussione, emerge è quello dell’ allentamento della tensione didattica sulle discipline (tema affrontato anche da Luisa Nardecchia, insegnante di scuola superiore), che con didattiche centrate sullo studente si opererebbe quasi per proteggere il “pargolo”, più attenti a  non stressarlo facendogli fare fatica,  che non a cosa effettivamente impari, contribuendo così (si, contribuendo, perché la scuola è la continuazione di ciò che avviene in famiglia) ad indebolire l’autonomia del bambino.

Per inciso mi domando se questo atteggiamento di compiacenza didattica tradisca la poca autostima professionale in cui potrebbero vivere alcuni insegnanti , poca autostima che li porta ad evitare situazioni di potenziale stress e conflitto preferendo una rassicurante relazione collusiva … un’ipotesi su cui ragionare ….

Non credo che “discipline” e loro mediazione didattica siano in contrapposizione. Ogni mediazione didattica ha lo scopo di favorire la comprensione solida e profonda dei contenuti disciplinari e non la loro banalizzazione. L’alternativa ad un apprendimento meccanico e superficiale non è la semplificazione delle discipline, o il loro apprendimento precario, casuale, quello che resta tra le pieghe di una “didattica” (superficiale? approssimativa? ) se pur “innovativa”.

La parola a Matilde

[…] io credo che in quegli anni (anni ’80) sia iniziata la svalutazione dell’idea di disciplina e impegno, l’idea che lo studio richieda sforzo e determinazione, a favore dell’idea di insegnamento naturale, di apprendimento coinvolgente, divertente e, quindi, facile e piacevole. In pratica si assolvono i figli e gli studenti quando non si impegnano dando la colpa alla noia delle spiegazioni, alla fatica di compiti ritenuti inutili, alla staticità dello studio.

Le nazioni dove la disciplina non è vista come una “parolaccia” innominabile o come un metodo coercitivo, ma è una palestra personale di autocontrollo, continuano ad ottenere buoni risultati. Quelle che abbinano metodi avanzati di insegnamento, come la Finlandia, alla richiesta di impegno personale, di ragionamento, di applicazione cooperativa nello studio, poi, ottengono risultati tra i migliori del mondo. In Italia siamo troppo “carini e coccolosi”, sempre preoccupati che i ragazzini si facciano male, si stufino, non si divertano, facciano le cose male (e così gliele facciamo noi) poco attenti a sfidare gli alunni su terreni difficili, poco motivanti davanti all’impegno.

Io, lavorando a scuola, ho notato la stessa cosa negli ultimi trent’anni, dalla fine degli anni ottanta ad oggi: bambini sempre più pigri, distratti, poco interessati e subito annoiati, senza desiderio di riuscire e sostituiti in ogni fatica da genitori presenti, zelanti, preoccupati di far fare bella figura ai bambini, ma di fatto impediscono loro di affrontare qualsiasi piccola fatica. I bambini non leggono le spiegazioni, aspettano che la maestra gliele legga, non spiegano quello che vogliono dire, ma aspettano che l’insegnante capisca e spieghi lei con le parole che loro non si impegnano a cercare (addirittura quando un bambino si spiega male, un compagno finisce il suo pensiero per lui, come se fosse normale sostituirsi ad un’altra persona, ma io insisto “voglio che me lo dica lui/lei”) non tagliano il proprio cibo e non usano le forbici, non sanno distribuire la colla su un foglio e attaccarlo dritto, o impilare i quaderni, non si allacciano i bottoni dei propri vestiti, non girano le maniche della giacca rovesciata, non riconoscono i propri oggetti o indumenti, non maneggiano ago e filo, non sanno piantare un chiodo o versare l’acqua da una bottiglia, non sanno tagliare lo scotch a strappo o maneggiare la scopa e la paletta per raccogliere le briciole da terra. Parlo di bambini dai sei ai dieci anni… ma questa mancanza di autonomia parte da molto piccoli, da casa, dal fatto che la mia nonna mi faceva cucinare e cucire con lei, che potevo piantare un chiodo e maneggiare le forbici, che la mia mamma non mi vestiva e non mi lavava… da lì partono lo smarrimento e la “mollezza” dei giovani che sono cresciuti così, privati della capacità di fare da soli. Mia opinione, non supportata da ricerca scientifica, ovvio.

La questione delle “discipline” si è posta a proposito delle “nuove” didattiche che si affacciano a scuola, nuove didattiche la cui limitata efficacia è, anche a mio avviso, dovuta più che alla fragilità delle metodologie stesse, al modo in cui esse sono agite in classe da insegnanti approssimativamente formati, e auto-formati, a queste “innovazioni” a dir poco selvagge, guidate da un malinteso senso della “fatica” dell’apprendimento, che deve essere tassativamente evitata. Il che non vuol dire che si debba imparare soffrendo (approccio che non mi appartiene) ….

Per applicare nuove metodologie bisogna conoscerle bene e sapere sempre dove si vuole andare a parare e come si arriva all’obiettivo… il fai da te improvvisato è una tentazione pericolosa…
Che poi io non volevo parlare di metodologie didattiche, ma ero focalizzata su quelle educative che stanno alla base dell’apprendimento… il discorso ha preso una piega inaspettata. Io parlavo del disvalore dato alla disciplina e all’impegno, alla fatica e alla responsabilità personali… per i più, sia genitori che insegnanti “moderni”, i bambini dovrebbero venire a scuola solo sull’onda dei sentimenti, con gli occhi pieni di meraviglia, con maestre istrioniche e simpatiche, sempre sorridenti come animatori di un villaggio turistico, ma senza che i ragazzini vivano il vero protagonismo nell’apprendimento, fruire di una sorta di mondo magico dove le cose accadono e loro capiscono, collaborano si divertono, ma dove tutto deve essere facile e non devono mai esserci conflitto o frustrazione. Siccome mi piace, allora imparo, siccome mi stanco, allora non lo faccio… invece sappiamo tutti che la soddisfazione per aver trovato da soli il modo, per aver ricordato un concetto al momento giusto, per aver applicato con successo la teoria appresa non sono conquiste da parco giochi. La fatica porta risultati quanto il piacere, non va sottovalutato il potere dell’esercizio, della determinazione e dell’impegno. Anche quello della noia e della ripetitività… secondo me non sono da buttare nemmeno quei momenti più soporiferi…

Un’ autoaccusa per la limitata padronanza dei contenuti da insegnare e da apprendere senza assolversi dall’altrettanta debolezza didattica ….

Un problema è l’improvvisazione. Noi della primaria siamo formati sulla pedagogia dell’alunno e poco sui contenuti, che cerchiamo di mettere insieme sulla psicologia dell’età evolutiva. In pratica abbiamo il metro dei nostri ragazzini, ma un po’ meno siamo padroni delle discipline da insegnare e delle loro implicazioni… Alle superiori di primo e secondo grado, l’assunzione non ha mai richiesto, finora, uno specifico periodo di formazione didattica, psicologica, pedagogica, ma solo la laurea sul contenuto. In pratica se sei laureato in, mettiamo, architettura, puoi insegnare le discipline tecniche ad essa correlate per legge. Oppure se sei uno scienziato, puoi insegnare biologia, astronomia… ma per quanto tu sia bravo nella tua disciplina non sei stato formato per essere un insegnante.
Questo è molto grave. Dal giorno dell’assunzione in poi devi formarti e capirci qualcosa. Sei hai talento (l’insegnante ha qualcosa che non si impara, ce l’ha e basta, solo deve imparare come usare il talento…) e buona volontà, capacità di ascolto e voglia di sperimentare, diventi un ottimo insegnante con sforzi ed esperienza. Se non ci capisci, nessuno ti chiede di fare uno sforzo in più. Dopotutto l’esperto di matematica o di arte sei tu… peccato che insegnare non sia una cosa che si può improvvisare da soli… Non sei tu e la tua conoscenza, ma tu, la tua conoscenza e un sacco di persone di tutti i tipi dall’altra

 

Nella discussione, in cui sono stati messi sotto accusa gli insegnanti “innovativi” soprattutto a causa della debolezza delle didattiche da loro proposte, si era quasi delineata una sorta di superiorità morale dei “tradizionalisti” e a una collega, che domandava se i non innovativi siano migliori, Matilde replica:

I non innovativi hanno almeno l’umiltà di sapere che alcune cose persistono e che la storia dell’istruzione e dei pedagogisti del passato sia sudata parola per parola, fallimento per fallimento, successo dopo successo. Gli innovativi, a volte, presumono di dover buttare tutto, acqua sporca, bucato, sapone e bambino… Certo gli innovativi sfidano l’immobilismo in cui si crogiolano a volte i non innovativi, smontano un po’ di certezze mummificate e sperimentano. Per questo la collaborazione è fondamentale!

Un passaggio finale per avere chiaro il background professionale di Matilde tracciato da lei stessa

Forse non mi son spiegata bene, ma il mio ragionamento, non è affatto sugli studenti che vorremmo avere: io mica vado a scuola per me, ci vado per i miei alunni. Chi trovo, trovo.
Ho lavorato nella scuola per trent’anni circa: sono stata nella periferia in un campo Rom, dove tenere i bambini in classe era il massimo successo possibile (chiudevamo a chiave i due o tre che venivano per non farli scappare…);
Ho lavorato con i figli dei carcerati di San Vittore, disorientati e tristi, violenti e aggressivi;
ho lavorato con bambine e bambini abusati sessualmente, dove le paure e le fobie erano all’ordine del giorno (una bambina spalmava le sue feci sul muro del bagno, tanto per dare un’idea…) e dove la testa correva a momenti orribili e spesso c’erano lacrime (anche mie) e fatica vera a stare al mondo.
Ho lavorato con figli di famosissimi (giuro che sono da rotocalco) imprenditori e gente di spettacolo di Milano, dove la solitudine e l’ingombrante presenza delle cose si sovrappone al desiderio di amore di queste persone (un bambino stava sempre e solo col suo filippino… veniva il filippino pure ai colloqui; una bimba voleva passare la mattina di Natale con la nonna e invece la mamma la portava ai Caraibi… ).


Lungi da me essere come mi descrive lei, perfettina, utopica e poco realista, con la testa piena di maestrine dolci e caramellose e di bimbi deliziosi…


Io sono molto concreta nel mio insegnamento e molto rivolta sull’alunno. Cosa vorrei io c’entra ben poco con il mio lavoro. E di livelli di apprendimento ne ho visti di ogni tipo. Ma in generale, le cose che si fanno sono molto meno apprese, più presto dimenticate e poco utilizzate dai bambini.
Ma devo chiedermi cosa è cambiato, dove stanno i problemi oggi e cosa posso fare per migliorare il mio insegnamento, cosa sono disposta a modificare e che senso hanno le modifiche. La tradizione scolastica non è affatto da buttare totalmente nel cesso e ricreare la scuola da pseudonovità, sarebbe un errore ancora più presuntuoso che desiderare alunni fatti ad arte col compasso… se non ci pensassi, a queste cose, sarei una fallita che fa la maestra solo perché “mi piacciono i bambini” (mi vien la nausea quando sento questa frase…).

 

Io credo che il problema sia complesso, ma che ci stia anche un malinteso senso di “nuove didattiche”. Nella foga di innovare, a fronte di insoddisfazioni per le “vecchie” si sono fondate le nuove pratiche sul nulla e si è innovato in modo selvaggio e inefficace. Tanti si sono orientati verso una didattica “costruttivista” (perché accattivante nei suoi principio) non sapendola fare. Ho visto tanto costruttivismo selvaggio che ha fatto male tanto agli studenti che al costruttivismo stesso. La superficialità didattica non paga. Ma le questioni sono anche tante altre,  non ultimi i cambiamenti nei costumi, nei valori , su cui la scuola si è appiattita e si sta appiattendo e che, in alcuni casi di consumismo pedagogico, alimenta.

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