IN ESTREMA SINTESI: il “pensiero” computazionale non esiste. È uno slogan commerciale inventato dagli informatici (grandi player globali e piccoli informatici, accademici e non) con cui cogliere l’attimo fuggente della moda del digitale a scuola per piazzare i loro prodotti, i loro corsi, per crearsi un posto al sole; è uno slogan cavalcato dai politici per vendere a poco prezzo l’innovazione della scuola e per svendere la scuola al mercato del digitale.

E’ uno slogan pubblicitario accreditato con potenza di mezzi economici e di comunicazione.

E’ un ulteriori e inquietante caso in cui la scuola si fa dettare l’agenda dall’economia, dalla politica e dalla propaganda e non dalla pedagogia e dalla scienza (vedi l’ancor più recente caso dell’intera strategia digitale governativa sconfessata da due importanti società pedagogiche italiane)

Più in dettaglio

IL “PENSIERO COMPUTAZIONALE” NON È UNA FORMA DI PENSIERO

Uno dei tanti “paradigmi” deboli su cui poggiano le strategie di cambiamento, di rinnovamento, di ammodernamento (?) della scuola è quello del cosiddetto “pensiero computazionale”, un termine inventato da informatici e in voga da un paio d’anni nella scuola italiana.

Si tratta di qualcosa veramente nuovo? Siamo di fronte a una nuova forma di pensiero?

COSA NON È IL PENSIERO COMPUTAZIONALE

Il PC non è un concetto, non è un costrutto, non è un paradigma, non ha autonomia epistemologica.

Dal punto di vista epistemologico non è un “paradigma” ma, a essere generosi, un aggregato di abilità o di forme di pensiero ognuna delle quali dotate di una propria identità, note e utilizzate molto tempo prima che qualcuno (Papert 1980? Wing 2006?) si inventasse l’allocuzione diventata tanto popolare nella scuola italiana.

Normalmente, ogni nuovo oggetto di conoscenza, lo si voglia chiamare costrutto, paradigma, teoria, per essere considerata tale deve essere validata attraverso un’estesa ricerca condotta con metodo scientifico, deve poggiare su evidenze, deve essere messa in discussione da parte della comunità scientifica. Del nuovo oggetto di conoscenza si devono dimostrare caratteristiche costitutive, peculiari per non fare del nuovo una mera operazione lessicale.

Per il PC non ho (ancora) trovato in letteratura internazionale studi con simili caratteristiche che ne comprovino caratteristiche di novità, ma solo l’enumerazione di processi di pensiero noti e usati da tempo e utilizzati anche dagli informatici nelle loro attività di programmazione e assemblati, forse per comodità comunicativa, per dare origine nientepopodimenoché ad una nuova forma di “pensiero”, forse, per alcuni, ad una scoperta fondamentale.

Per giustificare l’esistenza di questa forma di pensiero eccoli tutti ad enumerare situazioni di vita quotidiana in cui si esercita questo pensiero: fare una torta, organizzare un evento, risolvere un’equazione, sviluppare un ragionamento.

Potrebbe mai la scuola, una scuola responsabile, attenta a preparare le nuove generazioni al futuro, ignorare questa scoperta? Potrebbe questa scuola privare i pargoli di questa fondamentale forma di pensiero?  Assolutamente no! Ecco allora comparire il pensiero computazionale tra le priorità ministeriali assegnata alle scuole, eccolo comparire (addirittura con un capitoletto tutto suo) nel recente (febbraio 2018) documento di aggiornamento delle Indicazioni nazioni per il Primo ciclo, ecco, infine, un finanziamento di decine di milioni di euro per attività didattiche nel primo ciclo per sviluppare attraverso il coding, la robotica e chissà quali altre diavolerie, il fondamentale pensiero computazionale!

Come se tutti quei processi di pensiero, quelle abilità non fossero mai state oggetto della scuola attraverso la didattica della matematica, della filosofia, delle scienze, attraverso attività trasversali, progetti, laboratori … e si continuino a fare senza etichette di chissà quale innovazione.

QUALCHE NOTA SUL PENSIERO COMPUTAZIONALE

Il termine è di recente invenzione (2006 Wing), ma ha già subito numerose revisioni, e non gode di una definizione condivisa (tanto per testimoniare la solidità e la sua identità).

La stessa Wing propone una prima definizione di PC (marzo 2006) decisamente allargata come significato e campi di applicazione

“Computational thinking involves solving problems, designing systems, and understanding human behavior, by drawing on the concepts fundamental to computer science. Computational thinking includes a range of mental tools that reflect the breadth of the field of computer science.”

Nel 2011 propone questa nuova definizione:

“Computational thinking is the thought processes involved in formulating problems and their solutions so that the solutions are represented in a form that can be effectively carried out by an information-processing agent”

Qui l’ambito e molto più ristretto: dalla pretesa di capire il comportamento umano usando i concetti delle scienze informatiche, si ridimensiona il campo a modalità di formulazione di problemi e di trovare soluzioni per dare istruzioni ad un computer (information-processing agent).

Per identificare un’entità specifica questa deve avere una propria identità, deve possedere contenuti e confini precisi, deve essere qualcosa di diverso da altro.

Gardner quando propose il suo celebre concetto di “intelligenze multiple” e lo supportò con la specificazione di ben 8 forme differenti di “intelligenza”, definì preventivamente i criteri che avrebbero dovuto essere rispettati per poter identificare una forma specifica di “intelligenza”, prima di poter dire di aver identificato un’entità specifica e non un diverso nome per qualcosa già esistente (*), Gardner non ha fatto un’operazione di rielaborazione lessicale.

Ci si potrebbe domandare se chi ha inventato il “pensiero computazionale” abbia fatto analoga operazione di indagine (scientifica ed epistemologica) o se si sia limitato formulare un’espressione (non oso definire ciò un “concetto” e ancor meno un “costrutto”) davvero suggestiva, associando l’idea potente e universale di “pensiero” e quella molto più tecnica, contingente, moderna di “computazione”, cioè di una modalità di calcolo   (attualizzata in “elaborazione di informazioni”) per identificare le modalità di funzionamento delle macchine mentre elaborano informazioni e risolvono un problema attribuendo a tutto ciò la qualifica di “pensiero”.

Interessanti le riflessioni di Giovanni Salmieri (http://www.roars.it/online/informatica-o-pensiero-computazionale-il-futuro-della-scuola-italiana/)  sulla consistenza del PC.

Alcuni dei suoi elementi ricordavano troppo da vicino i secolari precetti del buon ragionare per non apparire come la scoperta dell’acqua calda. Se per esempio si invita a decomporre un problema grande in altri problemi più piccoli, non basta per questo aver letto il Discorso sul metodo di Descartes?).

Giovanni Salmieri continua e cita Wing:

“Il pensiero computazionale è pensare ricorsivamente. È processamento parallelo. È interpretare il codice come dati e i dati come codice. È controllare i tipi come generalizzazione dell’analisi dimensionale. È riconoscere sia le virtù che i pericoli dell’assegnazione di alias, ovvero del dare a qualcuno o qualcosa più di un nome. È riconoscere sia i costi sia il potere dell’indirizzamento indiretto e della chiamata di procedure».

«Retrospettivamente» la proposta di Jeannette Wing aveva alcuni punti deboli fatali, dicevamo. Che essi fossero effettivamente fatali è stato ahinoi dimostrato dalla storia seguente. Quella che era annunciata come una possibile svolta epocale dopo appena qualche anno si è esaurita in pochi articoli ripetitivi e a volte francamente imbarazzanti nel loro tentativo di trovare tracce di «pensiero computazionale» dappertutto (la brava cuoca organizza le pentole in maniera che il sugo sia caldo quando la pasta si scola? pensiero computazionale!). La pretesa secondo cui il pensiero computazionale è qualcosa di più, o di diverso, o di preliminare, rispetto all’informatica è rimasto così un ritornello che non ha retto alla più elementare prova dell’hic Rhodus hic salta. Nessuna traccia invece di un’autonomia epistemologica del «pensiero computazionale».Così funziona la scienza, anzi la cultura in genere. Per avere la pagliuzza d’oro dell’idea buona che regge la prova del tempo è necessario proporne e setacciarne cento. Purtroppo il pensiero computazionale faceva parte delle altre novantanove.”

Che il PC non abbia una propria identità è confermato dalle tante specificazioni che si costruiscono a tavolino per dargli una parvenza di sostanza. Ad esempio, nel portale Programma il futuro, dopo aver portato come prova scientifica della sua esistenza uno spezzone del film Apollo 13, viene definito come un “processo mentale”per la soluzione di problemi costituito dalla combinazione di metodi caratteristici e di strumenti intellettuali, entrambi di valore generale. Cioè una “combinazione”. Va pertanto detto che non si tratta di processo mentale specifico e di nuova scoperta ma di un insieme di processi mentali e di procedure operative utilizzate in differenti contesti e ben note quando si parla di pensiero logico, algoritmico, formalizzato, per alcuni aspetti anche di pensiero creativo, certamente nel contesto di problem solving, certamente rilevanti quando si usa la matematica, si tratta di filosofia, si struttura un ragionamento formalizzato.. Ben che vada, il PC altro non è che un termine che per semplificazione comunicativa (gli inglesi usano il termine catch-all word o cath-all umbrella) serve a raggruppare un insieme di termini e/o significati di differente provenienza per una specifica finalizzazione. Da qui a costruirci una nuova epistemologia, a farne la base per il rinnovamento della scuola, a farlo comparire in Priorità e Indicazioni, a investirci 60 (o più?) milioni di euro, il passaggio è decisamente ardito.

CUI PRODEST?

A chi giova tutto questo ambaradan?

Non certamente agli studenti che non hanno alcuna opportunità di apprendimento aggiuntiva rispetto a quante non ne potrebbero già avere attraverso una buona didattica disciplinare. Non certo attraverso le attività di “coding” che, alla luce dei fatti, sono di scarsissimo valore pedagogico e didattico, riducendosi il più delle volte all’esecuzione meccanica di procedure formalizzate attraverso attività didattiche gestite da insegnanti privi di una preparazione specifica, formati attraverso corsi di breve durata e di contenuto light durante i quali imparano a ripetere attività già sviluppate da altri. Svilimento della funzione docente e poco rispetto per gli studenti. Nessuna preparazione al “futuro”, ma solo condizionamento all’accettazione di un futuro disegnato da altri, gli stessi che ne trarranno beneficio.

Non giova neppure alla scuola intesa come istituzione che consegnando in questo modo i propri studenti al falso ma seducente “progresso”, non ha alcuna possibilità di formare ad un atteggiamento riflessivo e critico verso la sopraffazione tecnologica e a sviluppare anticorpi psicologicamente e cognitivamente resistenti, scuola che si vede colonizzata dal business del digitale.

Giova sul piano culturale ed economico al business globale del digitale perché in questo modo si creano già “clienti” pronti al consumo digitale compulsivo.

Giova all’ampia platea di formatori, consulenti, venditori di robottini e altra ferraglia che si assicurano il pane quotidiano in cambio del consenso ad una strategia di zero valore pedagogico e didattico.

Giova, forse più che ad altri, ai politici di turno che si travestono da paladini della modernità e del rinnovamento della scuola italiana attraverso azioni invasive e costose ma il cui valore pedagogico e didattico non è mai stato (ancora) dimostrato.

SALVARE IL SALVABILE

C’è qualcosa di salvabile in tutto questo ?

Il pacchetto pensiero computazionale + coding non è proponibile sul piano concettuale e su quello didattico, ma considerato che come nel maiale anche a scuola non si butta via nulla,  possiamo dare dignità didattica (nel senso che un qualche valore in termini di apprendimento lo possiamo riconoscere) ai processi che vengono aggregati sotto l’ombrello del pensiero computazionale, ad esempio (sempre da Programma il futuro) e cioè:

  • Analizzare e organizzare dati e farne  rappresentazioni attraverso astrazioni
  • Identificare, analizzare, implementare e verificare soluzioni
  • Trasferire ad altri contesti procedure e soluzioni
  • Gestire l’ambiguità
  • Comunicare e lavorare con altri

Nessuno di questi e altri processi (che, va detto per inciso, fanno parte della buona didattica da sempre) è irrilevante nella vita di ogni persona in quanto prima o poi si potrà trovare nelle condizioni di utilizzarli. Per cui ben vengano le attività didattiche che ne favoriscono lo sviluppo dei singoli processi, ma far passare il “pensiero computazionale” come la chiave di volta nel bagaglio cognitivo e operativo di ogni persona e che, di conseguenza, debba avere il ruolo di priorità assoluta nei processi d’istruzione fin dalla scuola dell’infanzia e con iniezioni in dosi da cavallo in tutto il primo ciclo, è decisamente privo di significato.

(*) Possibilità di isolare la facoltà dopo aver subito un danno cerebrale, presenza in “ Idiots savants” prodigi ed altri individui., caratterizzata da una specifica operazione o da una serie di operazioni identificabili, definizione di una zona di sviluppo caratteristica (dimensione ontogenetica), possibilità di evidenziare una storia evolutiva e di plausibilità evolutiva (dimensione filogenetica), Presenza di prove fornite dalla psicometria, evidenza della propensione a codificare un insieme di simboli

 

Informatica o pensiero computazionale? Il futuro della scuola italiana

Tutti possono parlare di informatica?

Ancora sul pensiero computazionale

http://bricks.maieutiche.economia.unitn.it/2015/12/18/il-valore-del-computational-thinking-a-partire-dalla-scuola-dellobbligo-il-programma-logic/

http://www.cs.cmu.edu/~15110-s13/Wing06-ct.pdf

https://medium.com/@dyoung/dont-teach-computational-thinking-teach-to-think-about-computers-6a2aa8d79f07

Informatica o pensiero computazionale? Il futuro della scuola italiana

Tutti possono parlare di informatica?

Ancora sul pensiero computazionale

http://bricks.maieutiche.economia.unitn.it/2015/12/18/il-valore-del-computational-thinking-a-partire-dalla-scuola-dellobbligo-il-programma-logic/

http://www.cs.cmu.edu/~15110-s13/Wing06-ct.pdf

Riflessioni di Luciano Pes, docente di filosofia e programmatore informatico, sul pensiero computazionale

Coding, filosofia e logica. Prima parte.

 

Coding, filosofia e logica. Seconda parte.

 

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