tutor digitale

PREMESSA

Sollecitato da colleghi e amici che nutrono nei miei confronti una briciola di stima, provo a misurarmi con quello che dovrebbe essere il ruolo e, di conseguenza, la formazione di questa figura.

Per potermi mettermi nella condizione di ragionare sul tema con la giusta serenità, chiamerò questa figura ora e sempre TUTOR DIGITALE. Gli animatori lasciamoli ad altre incombenze.

Per la verità preferirei chiamarlo, anche per maggior coerenza con come viene descritto nella documentazione ufficiale, tutor didattico (con e senza tecnologie), ma mi parrebbe una forzatura culturale eccessiva e un esagerato …. marconatocentrismo.

La proposta che articolerò di seguito è ancorata in modo deciso e non ambiguo a quello che viene ritenuto essere il vero elemento di qualità del PNSD, l’autentica “visione culturale” dello stesso: l’ancoraggio didattico delle tecnologie e il considerare le tecnologie come strumento (cose che, scusate l’autocitazione, dico da anni per cui non posso non concordare). Mi atterrò in modo non dogmatico ma rigoroso a questi assunti.

Il mio pensiero è che se si vuole davvero mettere al centro la didattica è necessario sfuggire dalla trappola della tecnologia, dal suo indubbio fascino e dalla sua seduzione. Non partirei, quindi, assolutamente dalla tecnologia ma dopo un percorso di ricerca di significato, approderei alla tecnologia.

 

UNA RISPOSTA ALLA RICERCA DELLA DOMANDA

Partiamo dal problema e non dalla soluzione. Partiamo da come stanno le cose oggi a proposito dell’uso del digitale a scuola.

Qual è il problema su cui il tutor deve intervenire?

A parte le solite macchine di leopardo per cui a scuola trovi tutto e niente, pare che ci sia una grande resistenza ad usare le tecnologie. Se così non fosse, non servirebbe un “animatore”, evidentemente qualche problemino c’è.

Dico questo perché lo vedo e lo sento ripetere come un mantra da colleghi “evoluti” e nei tanti gruppi che in rete si occupano della questione. Tutti a recriminare sulle resistenze dei colleghi con non tanto velate accuse di non voler cambiare.

Facile, al limite del banale, la rilevazione dei sintomi, meno sensata se non assente la diagnosi e la messa in atto di terapie sempre inefficaci.

Ho sempre sostenuto, in questi dibattiti, che se non si usano le tecnologie, se non si cambia è perché non si vede alcuna valida ragione per cambiare. Le ingiunzioni a cambiare perché il mondo è cambiato o a usare le tecnologie perché le tecnologie devono stare a scuola perché stanno nel mondo, non hanno avuto alcun effetto e non di rado hanno irritato e reso ancor più resistenti i colleghi riottosi.

In un simile contesto proporre le tecnologie ha tanto il sapore di una risposta senza che si sia mai fatta la domanda.

DA DOVE PARTIRE

Iniziamo, quindi, col prendere sul serio queste manifestazioni di resistenza, partiamo con l’affrontare le ragioni del disinteresse, le ragioni della frequente percezione di irrilevanza delle tecnologie.

Togliamo qualche punto percentuale di insegnanti pigri e che non si smuoverebbero davanti a nulla, togliamone anche qualche altro per gli insegnanti per caso (e per sbaglio) e qualche altro ancora per gli insegnanti del 27, rimangono numeri importanti con cui si può lavorare con buone possibilità di successo. Qual è, allora, la ragione della resistenza al cambiamento di questa massa di potenziali insegnanti pronti al cambiamento?

Banalmente, se uno non cambia e non vede alcuna ragione per cambiare è perché quello che fa va più che bene per lo scopo del suo lavoro. Un insegnante che non cambia è quello che ritiene che la sua didattica sia più che adeguata ad assicurare gli obiettivi di apprendimento che deve garantire.

Qui entra in gioco il tema che sto trattando nel blog da qualche giorno, le basi implicite della didattica, la visione di apprendimento che le determinano, la persistenza e la forza delle teorie implicite nel guidare le pratiche didattiche.

È esattamente questo il punto su cui lavorare per attivare un cambiamento vero: sfidare le teorie implicite. Portare a consapevolezza le basi (implicite) della propria azione, comprenderne i significati, valutarne l’adeguatezza e, se necessario, cambiare.

Fino a quando non si opererà un vero e proprio cambiamento concettuale (cambio dei paradigmi teorici che ci appartengono) non si cambierà mai la pratica didattica. Si potranno anche fare dei cambiamenti operativi ma questi resisteranno per un breve periodo e prima o poi si tornerà alle pratiche che ci appartengono, quelle che sono coerenti con le nostre teorie.

Su questo tema dovrebbero lavorare i tutor digitali se vogliono essere di supporto al cambiamento o al miglioramento delle didattiche. Diversamente la loro sarà, nel migliore dei casi, un’azione di addestramento digitale (utilissima anche quella, sia chiaro).

COME FORMARE I TUTOR DIGITALI 

Come formare i tutor?

L’approccio didattico che vedo praticabile, lo strumento che credo sia davvero utile all’azione dei tutor digitali e rispetto al quale essere essi stessi formati (qualora non ne siano già esperti) è la ricerca-azione.

I tutor dovrebbero gestite nelle loro scuole iniziative di ricerca -azione focalizzate sulle pratiche didattiche, sui problemi di didattica degli insegnanti e di apprendimento degli studenti.

I tutor dovrebbero essere formati prioritariamente alla gestione di interventi di ricerca-azione dove le tecnologie entrano solo di rimbalzo come strumenti per far fronte ai problemi di didattica.

La ricerca -azione è il solo approccio didattico che consente la focalizzazione sulla pratica, per capirla, per coglierne le criticità, per cambiarla in modo consapevole e stabile.

Nel contesto di questo riesame si possono proporre ed esplorare nuovi approcci didattici e nuovi strumenti utili in questi. Ma prima ci deve essere la consapevolezza della necessità del cambiamento.

Concepire le tecnologie come strumenti, usate le tecnologie all’interno di un quadro pedagogico vuol dire proprio questo: partire dalla didattica dimenticando, per un momento, le tecnologie.

Ripeto: tutto il resto è mero addestramento che non è la strada del cambiamento. Ritengo che un serio addestramento all’uso delle tecnologia sia importante perché ogni insegnante dovrebbe avere una buona base di conoscenze digitali e saper usare un dignitoso repertorio di strumenti a supporto delle attività didattiche che vuole realizzare, ma il cambiamento, l’innovazione (come si usa dire) delle pratiche didattiche è altro e richiede un diverso approccio.

Mi rendo conto di avere in mente un profilo “alto” del tutor digitale ma, leggendo quello che ci si aspetta da lui e analizzando non ideologicamente la situazione e i problemi che anni di tentativi di diffusione delle tecnologie mettono sotto gli occhi di tutti, non vedo altre strade.

Anzi, una c’è ed è facilmente percorribile, quella della retorica, quella della parola, quella del cambiamento raccontato. Quella dell’uso forzato delle tecnologie e di “nuove” metodologie.

POSSIBILI OBIEZIONI

  1. TROPPO POCA TECNOLOGIA

È possibile che più di qualcuno veda in questa proposta troppo poca tecnologia, che la posizione di rimbalzo della tecnologia la releghi ad un ruolo troppo defilato, quasi ancillare, ma se è vero che la tecnologia è solo uno strumento, al centro ci deve stare altro, cioè la didattica ed è da questa che si deve partire.

 

  1. PERCHÉ SEPARARE TECNICA E DIDATTICA

Uno dei tanti errori che si sono fatti nel passato è stato quello di associare l’uso delle tecnologie all’innovazione didattica. In realtà le tecnologie sono methodology-free, si prestano a supportare tanto didattiche tradizionali che “innovative”. Gli strumenti sono neutri ed è l’intenzionalità didattica del docente che li caratterizza in un modo o in un altro.

Ecco perché una visione non ideologica delle tecnologie dovrebbe prescindere dagli orientamenti didattici, ecco perché avvicinarsi alle tecnologie solo per la loro rilevanza tecnica non è per niente disdicevole. Si devono fare le proprie scelte metodologiche indipendentemente dalle tecnologie.

 

  1. IMPRATICABILITÀ DELLA RICERCA- AZIONE

Intraprende un percorso di ricerca-azione non è una decisione semplice perché non è la risposta giusta alla frequente richiesta di fare velocemente e avere risultati concreti e immediatamente spendibili.

La ricerca-azione è fatta di riflessione, di coinvolgimento emotivo, di risultati costruiti lentamente, richiede tempo e impegno cognitivo e psicologico, implica mettessi in discussione, implica l’accettazione delle proprie carenze e l’abbandono di certezze costruite negli anni.

Credo che sia esperienza abbastanza comune aver rilevato come risultato a distanza di tempo delle attività didattiche “brevi” e “pratiche”, pur conclusasi con soddisfazione, la scomparsa delle nuove pratiche apprese e il rapido ritorno alle pratiche abituali. Proporre soluzioni in nome della praticabilità ma di rapida obsolescenza è sprecare risorse.

 

Per chi è interessato al cambiamento vero, io ci sono. Questo è il mio mestiere

 

 

 

 

 

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