Quando si riesamina questo periodo di didattica dell’emergenza si mettono in evidenza due questioni: le straordinarie opportunità offerte dalla didattica nella distanza vs. i suoi sterminati limiti e la dimostrazione di grande professionalità di certi insegnanti vs.la messa in trasparenza, anche per le famiglie, della sostanziale inadeguatezza al ruolo di altri.

Sono, quindi, sotto i nostri occhi modelli positivi e modelli negativi di scuola e di didattica: i primi devono essere disseminati e i secondi contrastati.

Ecco, quindi, che si tiri in ballo la formazione, solo la formazione, nient’altro che la formazione come leva per il cambiamento.

Nella soluzione di un problema cosa c’è di più pratico che cambiare le teste ed i comportamenti delle persone?

Non so, sinceramente, se sia solo questione di formazione.

Forse la formazione potrebbe servire ma ci dovremo intendere su quale “formazione” puntare.

Viste le usanze in fatto di formazione, soprattutto quando si parla di formazione “obbligatoria” (un gustoso ossimoro), un chiarimento essenziale va fatto sulla distinzione tra addestramento e formazione: il primo fa riferimento ad un cambiamento di primo livello finalizzato a generare un diverso comportamento esecutivo e ottenibile con relativa facilità; il secondo è un cambiamento di secondo livello finalizzato a modificare gli atteggiamenti e i valori che stanno alla base di un comportamento generativo.

Come descritto più ampiamente qui, l’addestramento ha senso quando non è richiesta partecipazione e condivisione psicologica e valoriale alle nuove pratiche, mentre quando la partecipazione e la condivisione ne sono componenti essenziali, l’approccio deve essere quello tipico della formazione.

La formazione, pertanto, è un intervento che solo secondariamente agisce sulle tecnicalità delle pratiche ma assume in modo intenzionale e strutturato il conseguimento del cambiamento dei presupposti psicologici, cognitivi e valoriali che determinano quelle pratiche (rimando ai concetti di cambiamento concettuale e di teorie implicite).

Lo vedo spesso quando faccio formazione e ho trovato conferme anche nelle recenti formazioni alla didattica nella distanza: non è l’appropriazione di tecniche didattiche a migliorare la relazione educativa, a migliorare il benessere dell’insegnante e degli studenti. Qualche nuova tecnica può, al meglio, arricchire la cassetta degli attrezzi, ma se la propria didattica è ritenuta inefficace, tale rimane anche con qualche attrezzo in più.

La richiesta di tanti insegnanti di “cose pratiche”, di “strumenti” è più che comprensibile perché è nelle pratiche che si percepisce il problema, ma una eventuale pratica inadeguata è il sintomo, non il problema; una pratica non cambia stabilmente sostituendola meccanicamente con un’altra.

Questo approccio meccanicistico (imparo una tecnica nuova e la mia didattica cambia), può portare alla modifica dell’azione nell’immediato salvo poi provocare un ritorno a pratiche consolidate perché il nocciolo della questione non è stato intaccato, se non marginalmente o casualmente.

Se ci fossero le condizioni per fare la formazione che secondo me servirebbe veramente, attiverei pratiche riflessive sull’azione didattica, lavorerei sull’interrogazione del proprio modo di essere ancor prima che sul proprio modo di agire, lavorerei attraverso domande, con lentezza, con momenti di silenzio….ma invece mi viene chiesto di essere pratico, di dare strumenti, cose semplici, facili ….non c’è mai tempo, bisogna essere efficienti, produttivi ….ma si ha solo l’illusione di esserlo.

Procedere con lentezza, fermarsi, riflettere….genera ansia…si devono fare i conti con sé stessi, conti spesso impietosi … meglio rifugiarsi nel fare, più rassicurante…

Ecco, se qualche auspicio faccio per il “dopo” è che si faccia meno formazione ma si faccia formazione vera se si ritengono importanti i risultati della FORMAZIONE, altrimenti facciamo addestramento e accontentiamoci dei risultati dell’addestramento.

P.S.

Non è detto che tutta la “formazione” sia addestramento. Può capitare, e capita, che ci siano persone che nei ritmi concitati della formazione sanno fermarsi da sole, che si interroghino sulla propria didattica, che prendano per buone solo alcune delle cose che ho presentato, quelle poche che per loro hanno un senso e le sanno piegare per adattarle al loro modo di essere. Quando questo succede io sono felice per aver fatto un lavoro utile.

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3 pensiero su “Dopo la didattica a distanza quale formazione degli insegnanti?”
  1. Concordo perfettamente. L’insegnamento a distanza ha metodi che nulla hanno a che vedere con il “metodo trafizionale” di fare lezione in classe. A ben osservare è il metodo che non va. Anche in aula il metodo dovrebbe avere l’approccio cognitivista ma anche psicologico. La lezione frontale: spiego, gli studenti studiano e verifico se hanno studiato bene non é assolutamente prevista dai programmi ministeriali ma sempre in uso perchè il riferimento è…”quando andavo a scuola io”.
    Grande problema modificare con la formazione questo status.
    Quanti sono disponibili a mettersi in gioco?

  2. Gino, insegnare e imparare a distanza, come ben sai, è molto più difficile che farlo in presenza. Ci sono dispositivi didattici che funzionano in presenza e non a distanza, altri che non funzionano né in presenza né a distanza (una lezione di un’ora, ad esempio). Sulla “lezione frontale” io penso che se fatta bene abbia sempre un senso, ovviamente con implicazioni diverse a seconda dell’età degli studenti

  3. io ho visto più chiaramente che mai, nero su bianco, lo stacco che c’è tra i processi che i ragazzi attivano realmente, durante qualsiasi tipo di lezione, e quelli che chi insegna ritiene che sia logico che essi attivino. Occorre lavorare sul FARE e COMUNICARE in forma scritta e parlata e buttare all’aria qualsiasi orazione che duri più di 30 secondi senza un feedback. Una larga dose di DaD, su cui peraltro lavoravo anche quindici anni fa, deve essere inserita anche nella didattica in presenza. Non ho dubbi: i ragazzi devo acquisire “confidenza” con il proprio pensiero e renderlo traparente e comunicante a se stessi. Ecco perché comunicare in forma scritta non è utile allo smart working, ma per sviluppare funzioni cognitive. Altrimenti il salto ai concetti potrebbe non avvenire mai. E anche gli insegnati le teorie devono renderle esplicite, non implicite. Non vorrei mai più vedere studenti sorridenti e catturati da una bella orazione come strumento principale di apprendimento. E non vorrei mai più vedere un alunno che mi viene rispedito dopo 25 minuti di ritardo (assieme a tutta la sua classe) perché il professore dell’ora prima doveva “finire di interrogarlo”, che manco al posto di polizia. BASTA! questa scuola fa schifo, senza se e senza ma. Il ragazzo stava con me e io lo facevo parlare, scrivere ragionare e lavorare comunicando con gli altri, con dei compiti strutturati e dei concetti con cui prendere confidenza.

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