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Le indagini PISA, pur nella loro dichiarata parzialità che rende “audace” ogni diagnosi dello stato del sistema d’istruzione di un Paese e ogni decisione terapeutica sullo stesso se fatta sulla base solo di quei dati, qualche indicazione ce la possono fornire su come e dove intervenire. Questo alla condizione che non si nutra la pretesa che si attivi, meccanicisticamente, un effetto benefico sulle performance del sistema se e quando si attivano degli interventi sugli aspetti problematici evidenziati nelle indagini stesse. Le ragioni delle buone, come delle inadeguate, performance non sono sempre chiare ed univoche e gli impatti degli interventi si evidenziano su lunghi periodi quando questi interventi sono stabili e coerenti. Ad esempio, se è vero che gli investimenti in istruzione possono migliorare la qualità del servizio educativo di una nazione, questo può valere solo in termini di macro-tendenza; la riprova è sotto gli occhi di tutti  qui in Italia dove in questi ultimi anni si è avuta una significativa contrazione degli investimenti pubblici (- 8%) mentre le nostre performance PISA non sono diminuite dal 2009 al 2012, anzi, lievemente migliorate. Che siano gli effetti col trucco dei corsi di preparazione ai test PISA e INVALSI? Una patologia scolastica …..

Con questa premessa (con la quale ho inteso affermare che i dati PISA non vanno intesi come delle “verità” a sostegno di una qualsiasi tesi e che possono esserci d’aiuto solo per identificare macro tipologie di interventi), mi soffermo su degli aspetti che anche il PISA (e non solo, trattandosi di una tematica su cui si discute da tempo) ritiene importante affrontare rapidamente: cosa insegnare a scuola.

E’ una questione che ovunque nel mondo ci si pone, e non da ora. Da noi uno scossone (a mio avviso solo apparente) sta venendo con la questione della didattica per le competenze per la quale si dovrebbero insegnare cose nuove ed in modo nuovo. Di certo assistiamo ad un grande movimento, in alcune realtà con effetti (provvisoriamente?) positivi , in altre con l’approccio gattopardesco dove, in sostanza, nulla cambia.

Andreas Schleicher, direttore del programma OCSE – PISA, presentando i dati dell’indagine 2012 (1), mette in evidenza la correlazione esistente tra le conoscenze e le competenze possedute dalle persone e l’innovazione dei sistemi e l’occupazione delle persone.

Schleicher, recensito da Annamaria Testa (2), afferma che:

 … una maggiore offerta di istruzione non sempre si traduce in più competenze spendibili

e continua dando una lettura di questa affermazione:

 …  le abilità manuali e cognitive di routine, che sono più facili sia da insegnare sia da verificare, sono sempre meno richieste e perdono di valore. Il perché è ovvio: essendo attività meccaniche, sono anche le più semplici da meccanizzare o da esternalizzare

Cosa diventa, allora, importante?

Acquistano valore, invece, competenze complesse da imparare e difficili da insegnare: oggi essere alfabetizzati non vuol dire solo saper leggere e scrivere, ma essere capaci di orientarsi in un testo. Di capirlo, interpretarlo, sintetizzarlo. Di confrontarlo con altre fonti e di gestirne le ambiguità. Servono creatività, pensiero laterale, pensiero critico, attitudine al problem solving, capacità di comunicare e collaborare.

Un passaggio cruciale è questo:

A scuola si insegna ciò che è più facile insegnare, non ciò cosa sia importante insegnare

Consideriamo che Schleicher parla da una prospettiva che gli consente di osservare quasi tutto lo scenario mondiale.

Quella evidenziata dal direttore OCSE – PISA è una problematica che, nel mio piccolo,  mi è sotto gli occhi tutti i giorni lavorando con tante scuole e tanti insegnanti.

Più in dettaglio, cosa vedo essere considerato importante a scuola e cosa dovrebbe, invece , insegnare la scuola perché gli studenti si trovino meglio nella loro vita? Un po’ alla rinfusa:

  • a scuola la conoscenza è generalizzata (nel presupposto, falso,  che questo favorisca il transfer) mentre nella vita è sempre contestualizzata;
  • a scuola si presentano le conoscenze in isolamento (per la loro memorizzazione, per “facilitarne” l’apprendimento) mentre nella vita le conoscenze si usano  in relazione le une con le altre (comprensione, applicazione);
  • a scuola si assegnano compiti semplici e routinari, nella vita i compiti sono sempre complessi e sempre diversi;
  • a scuola si danno da risolvere problemi strutturati mentre nella realtà la maggior parte dei problemi  è aperta, non strutturata;
  • a scuola si valorizza la ripetizione di informazioni ella realtà si risolvono problemi;
  • a scuola si richiede l’applicazione meccanica di procedure risolutive mentre nella vita si richiede l’esercizio di un pensiero generativo;
  • a scuola si punisce l’errore mentre nella vita si impara dall’errore;
  • a scuola si premia il pensiero convergente (la risposta giusta) mentre nella vita i migliori sono capaci di pensiero divergente (creatività, soluzione di problemi);
  • a scuola si lavora in modo individuale mentre tante prestazioni della vita reale sono frutto del buon funzionamento di un gruppo
  • a scuola si punisce chi copia ma nella vita si utilizza continuamente la conoscenza posseduta da altri
Portare il mondo a scuola sotto forma di compiti significativi e con la valorizzazione di processi cognitivi e sociali complessi e ricchi potrebbe aiutare meglio studenti e studentesse a vivere  meglio.
Chiudo con un ultimo passaggio dell’intervento di Schleicher
 … le competenze di routine non sono più sufficienti e la scuola deve preparare i ragazzi a continuare a imparare per tutta la vita … per trasmettere competenze di routine bastano insegnanti modesti, a cui il governo prescrive cosa insegnare
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Altri riferimenti utili
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3 pensiero su “Perché a scuola si dovrebbero imparare cose che servono nella vita e non cose che servono a scuola?”

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